Tutto il palazzo festeggia i primi 100 giorni del governo Monti. Io, con il popolo italiano, festeggio i primi cento giorni senza Berlusconi di torno.

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La crisi di Milano -2

Il convegno all’Umanitaria di ieri sera, indetto da Milano Civica, sul bilancio (arancione e meno)  ha ribadito, per bocca sia di D’Alfonso che di Tabacci la gravità della situazione milanese.

Se qualcuno è interessato può scaricare sia l’intervento di D’Alfonso che quello di Bruno Tabacci (di un certo respiro).

Accludo per completezza anche l’intervento di Andrea Boitani, economista della Cattolica, con le sue stimolanti considerazione sulle aziende municipali da dismettere o liberalizzare.

Tutte le registrazioni sono mie. E me ne assumo ogni responsabilità.

 

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La crisi di Milano

Mercoledi scorso abbiamo intervistato Davide Corritore, il city manager, per il sito a cui ora collaboro, Z3XMI. Nei comitati per Milano (ex per Pisapia) c’è oggi notevole inquietudine, di fronte alle cifre di deficit circolate.

Ecco la lunga chiacchierata, per me molto istruttiva:

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Innanzitutto, qual è la situazione? Gran parte della preoccupazione di molti nasce da questa cifra, da poco circolata, di 580 milioni di disavanzo del Comune per il 2012. Dopo che abbiamo visto il buco da 300 milioni dell’anno scorso, tamponato solo dalla vendita di una quota della Sea. E dopo anche un 2010 in cui la spremitura delle partecipate comunali ha consentito, all’amministrazione guidata da Letizia Moratti, di far quadrare i conti. Che cosa sta succedendo al bilancio comunale?.

Succede che il comune di Milano, al pari di molti altri comuni, ha ormai da cinque anni una crescita strutturale e progressiva del proprio deficit di parte corrente, ovvero della differenza negativa tra entrate e uscite correnti, e queste ultime sono i servizi che diamo alla città, da quelli anagrafici fino ai sociali. Questo sbilancio, che per una famiglia vorrebbe dire lo squilibrio tra il reddito e le spese necessarie, è in accelerazione.

I numeri sono clamorosi. Nel 2007 il deficit era di 147 milioni di euro, l’anno dopo passa a 190, nel 2009 siamo a 228, nel 2010 a 268, nel 2011 a 300. Questo per l’ultimo quinquennio. Si vede la strutturalità e l’accelerazione. Proiettato sul futuro il deficit va ancora peggio. Senza interventi, inerzialmente, nel 2012 stimiamo 580 milioni, che diventeranno quasi 600 nel 2013. E così via.

La ragione di questa crescita? Sta anche nell’effetto della crisi del debito pubblico e di uno stato centrale che ha drenato risorse dai comuni, talvolta con scelte anche improvvide. Tagliando i trasferimenti agli enti locali e insieme togliendo in passato alcune imposte, come l’Ici, che prima erano locali. Questo minor afflusso di risorse ha contribuito molto alla crescita del deficit. Un fatto nazionale, non milanese.

Però c’è da dire che Milano non ha mai affrontato davvero seriamente questo disavanzo. Ogni volta che si manifestava il deficit, scattava la ricerca degli strumenti per mettere in qualche modo a posto l’anno in corso. Ovvero entrate straordinarie. Come la vendita di pezzi di attività oppure il ricorso a dividendi straordinari. Ovvero attingere agli utili passati delle proprie vecchie partecipate per rifornire i servizi erogati in quell’anno. E’ come se una famiglia per vivere dovesse vendersi ogni anno un pezzo di casa, o asciugare i suoi risparmi.

Anche qui c’è un dato clamoroso. Dal 2009, e poi negli ultimi tre anni, la componente delle entrate straordinarie utilizzate per coprire il deficit è stata dell’80%, 90% e 100%. Si è messo mano a vendite come la Serenissima, poi dividendi straordinari dalla Sea, Atm, A2A. Abbiamo prosciugato casse accumulate in anni da queste società per tamponare il disavanzo corrente. Nei cinque anni l’azionista Comune ha prelevato dalle sue partecipate quasi un miliardo di euro. Milano ha svuotato tutti i porcellini di famiglia.

Ora non ci sono più margini. La festa delle operazioni straordinarie è finita. Oggi abbiamo un problema serio. Un deficit pesante, 580 milioni quest’anno e poi a venire, e la necessità di impostare un vero piano di lungo termine di riequilibrio strutturale del bilancio.

Sull’ansia di queste cifre abbiamo deciso una svolta, anche di metodo. E stiamo lavorandoci. Con un’analisi sia del passato che del futuro, mai fatta in passato a Palazzo Marino. Raccontandoci la prospettiva della città, con i suoi numeri inerziali, tutte le nostre misure nei prossimi quattro anni, fino all’Expo, indicando anno per anno tutti i potenziali interventi, con tutte le componenti e le leve esistenti.

Con due obbiettivi. Primo, raggiungere nel mandato l’equilibrio strutturale dei conti nella parte corrente. Il che significa che il Comune deve funzionare con quello che raccoglie, senza più mettere mano a nulla di straordinario. Il secondo obbiettivo si basa su un altro dato, estremamente importante per noi. Secondo cui negli anni scorsi non solo è salito il deficit di parte corrente, ma anche è clamorosamente scesa la quota di investimenti per il funzionamento della città stessa.

Stiamo parlando di investimenti per la manutenzione delle strade, delle strutture, dell’arredo urbano. E così via. Spese ricorrenti, necessarie. Questa voce che era di 330 milioni nel 2009, l’anno dopo ha perso 50 milioni e l’anno dopo ancora altri 50. Passando in un triennio da 330 a 210 milioni annui di investimenti, un terzo. Siamo ai livelli minimi incomprimibili e la gente se ne accorge. E’ visibilmente percepibile il rischio di degrado, dalle buche nelle strade alla cura dell’habitat urbano.

Quindi il tema strategico che oggi si sta discutendo in Comune è: uno, un piano di risanamento che riesca a tracciare la strada che porta al riequilibrio stabile di bilancio. In modo da consegnare al futuro una città che si sostiene strutturalmente da sé. E, secondo, riprendere gli investimenti, ora, senza aspettare il pareggio delle partite correnti. Anche perché siamo in una crisi economica pesante e l’unica è fare come sta facendo il Governo. Ovvero una manovra dura sulle partite correnti, sul disavanzo primario, ma contemporaneamente di spinta sugli investimenti nelle infrastrutture e in opere per le città. Su questo terreno il Governo Monti si sta attivando rapidamente. Una logica keynesiana di stimolo alla ripresa. E sarebbe auspicabile che Milano, capitale dell’economia, seguisse la stessa strada.

Altri investimenti a debito?

Qui arriviamo al dunque, fondamentale per Milano. Apriamo il capitolo debiti. Terzo elemento. Milano ha 4,2 miliardi di debito, 8mila miliardi di vecchie lire. Questo vuol dire che siamo a 3200 euro di debito comunale per ogni milanese. Il triplo della media dei comuni italiani ma, sulle città metropolitane, circa il doppio. L’unica città con un debito più alto è Torino, ma a causa del peso degli investimenti per le passate Olimpiadi invernali.

Il problema è poi che Milano ha eventi come l’Expo in corso e il debito è cresciuto a causa delle nuove infrastrutture in costruzione (quale la metropolitana) . Abbiamo investito su queste e non sul funzionamento della città. E ha generato un appesantimento del debito. E siccome per legge abbiamo dei parametri precisi che non possono essere superati, dato che il patto di stabilità impone che tu abbia un rapporto massimo prefissato tra quello che tu paghi di interessi per un mutuo e le tue entrate correnti, questo significa che, allo stato attuale, o aumenti le entrate oppure non puoi indebitarti ulteriormente. E in prospettiva saremo addirittura obbligati, per le legge, a calare drasticamente il debito già esistente: quasi un miliardo entro qualche anno.

Quindi noi abbiamo possibilità di indebitamento bloccata. Siamo fermi.

Riassumendo: a) dobbiamo andare al pareggio dei conti; b) dobbiamo far ripartire gli investimenti ; c) non possiamo indebitarci, e in prospettiva dovremo anche tagliare i debiti

Questo significa che se vogliamo fare nuovi investimenti abbiamo solo due strade. O i soldi ce li dà il Governo, (ad esempio con i fondi strutturali) oppure facciamo delle riallocazioni di investimenti, cedendo qualcosa di meno strategico per liberare le risorse. Per esempio: è chiaro che Milano dovrà investire sulla mobilità centinaia di milioni di euro: abbiamo la linea uno della metropolitana con treni (che costano 9 milioni l’uno) che hanno più di 40 anni. Sulla mobilità i soldi dobbiamo metterceli, se vogliamo spostare il trasporto da privato a pubblico.

Se vogliamo investire là dobbiamo capire come e dove disinvestire da qualche altra parte.

Può sembrare un discorso economicista ma qui è il nocciolo della questione. E questo mandato di Pisapia si porta con sé una seria sfida sul bilancio.

Certo, magari una parte dei fondi per investire verranno dal Governo. Vedremo. Ma dobbiamo anche ripensare alla geografia delle nostre partecipate, che sono tante. Con 2,5 miliardi di valore. Dobbiamo capire se dentro vi è qualche asset che può essere considerato in una logica di riallocazione, vendendone un pezzo per investire su qualcosa che è utile alla città.

Questa è la condizione essenziale per questa fase.

Non si può mettere in gioco anche il patrimonio edilizio?

Il patrimonio edilizio equivale, in termini di patrimonio disponibile, di quasi 1,8miliardi. Qui ci si sta orientando di sicuro verso una gestione più efficiente. In una riflessione di giunta è anche emersa un’ipotesi futura di immobiliare pubblica dove conferire il patrimonio immobiliare, in modo da gestirlo in modo integrato e ottenere grandi economie di gestione, per gli affitti e nei costi. Poi evidentemente ci potrebbe essere un tema di dismissione di asset edilizi. Però attenzione: Milano è già una città in crisi nell’area immobiliare. C’è molta offerta, il mercato è fermo, siamo in recessione. Ricordiamoci che ciò che Milano ha cercato di vendere in questi due anni, attraverso le operazioni sui fondi immobiliari voluti dalla Moratti, ha dato risultati molto scarsi. E questo deve farci pensare sulla possibilità di cedere in tempi brevi immobili significativi.

Certo, un adeguamento ai valori di mercato degli affitti di immobili ad alto valore di mercato, come quelli della Galleria, è necessario. E per altro la cosa è già all’attenzione della giunta. Questa strategia correrà insieme ad una forte accelerazione della spending review, un ripensamento delle nostre modalità di produzione dei servizi, con l’obiettivo di costi inferiori. Poi una forte accelerazione nell’uso delle tecnologie, servizi online, digitali. Insomma tutto ciò che può aiutare a offrire servizi alla città a minor costo per l’amministrazione e risparmi di tempo e denaro per il cittadino.

Terzo, una forte lotta all’evasione fiscale. Ora esiste una direzione centrale ad hoc, lotta all’evasione, che ha il compito di incrociare tutti i database di cui dispone il Comune. Che significano redditi, patrimonio immobiliare, tasse sui rifiuti, bollette della luce e del gas, pubblico registro automobilistico, multe pagate. Abbiamo una base dati molto ampia. Il lavoro verte sullo sviluppo di algoritmi utili a individuare profili di cittadini che, rispetto ai redditi dichiarati, hanno stili di vita non compatibili, e quindi una probabilità alta di evasione.

Abbiamo sottoscritto un protocollo d’intesa con l’Agenzia delle Entrate. Noi faremo tutto il lavoro di istruttoria anagrafico-statistica, che andrà all’Agenzia e, secondo l’accordo, avremo diritto al 100% di ciò che viene recuperato. Si chiama co-accertamento.

Il tutto in base a una legge dell’anno scorso. Per questo teniamo particolarmente a questo progetto. E stiamo già collaborando, tramite i vigili, anche con i controlli sul campo.

Ci si può aspettare una grande gettito da questa iniziativa?

Ovviamente all’inizio no. Stiamo investendo e creando la task force. Quest’anno forse ne avremo 3 o 4 milioni di euro, per cominciare. Ci aspettiamo però che questa voce salga sensibilmente, anno dopo anno. Ed è molto probabile che questa iniziativa finirà per avere un ruolo di deterrenza sull’evasione complessiva. Paradossalmente in un futuro, potremmo essere contenti di raggiungere un introito zero nei co-accertamenti con l’agenzia delle entrate, se ciò corrisponderà ad un pagamento integrale delle tasse da parte dei cittadini. Perché ciò vorrà dire che lo Stato è riuscito finalmente a mettere mano ad un baco fondamentale dell’azione di risanamento delle casse pubbliche.

Qual è il costo del servizio del debito? Sarà possibile fare qualcosa anche su questo fronte?

Oggi l’indebitamento del Comune, a 4,2 miliardi, è esposto prevalentemente a tasso variabile. Il che in questo momento è abbastanza conveniente, dato che i tassi a breve sono piuttosto bassi. Quindi paghiamo un livello contenuto. Siccome però prevediamo che nei prossimi anni i tassi di interesse potrebbero salire, sulla base di possibili spinte inflazionistiche, ci stiamo ponendo il tema di una riconversione dell’indebitamento al tasso fisso.

Passiamo alle agevolazioni che il Comune eroga….

E’ il tema dell’equità. Di quella che ho definito come Equometria, economia dell’equità. A chi diamo i servizi, e le agevolazioni? E’ chiaro che in un momento di crisi diventa importante dirigerli verso chi ne ha veramente bisogno. In una democrazia del sacrificio. Ovviamente se anche il pubblico si mette a dare servizi e risorse a chi ha già, contribuisce all’allargamento della forbice. Da tempo sostengo che dobbiamo erogare servizi e agevolazioni sulla base di parametri nuovi. Finora ci siamo basati su un indicatore nazionale, l’Isee, che per fortuna il Governo sta arricchendo di nuovi parametri che tengono più conto dello stile di vita. Quando avremo esaminato questi, avremo elementi per rivedere i criteri con cui assegniamo servizi e agevolazioni. Andando anche a verificare che i fruitori siano effettivamente in possesso dei requisiti dichiarati..

Qui è ancora utile l’attività di data mining…

Certo, se abbiamo gli elementi per poter verificare il loro stile di vita, per la contribuzione fiscale, possiamo anche incrociare questi dati con quello che diamo loro.

Torniamo al piano di rientro dal deficit attuale di 500 milioni. Nuove tasse? Come, dove, quante?

Guardiamo alle leve disponibili dal Governo. C’è l’Ici sulla prima casa, detta ora Imu. E quella sulle seconde case. Poi l’addizionale Irpef che lo Stato ha concesso in misura superiore ai comuni con l’ultima manovra. Poi la possibile tassa di soggiorno e la Tarsu, l’imposta sui rifiuti. Queste sono le opzioni per attaccare, sul lato delle entrate, il disavanzo di parte corrente.

Noi, certamente, vogliamo risanare il bilancio negli prossimi anni. Ma non possiamo appesantire troppo la città in un momento di recessione tanto forte. E’ chiaro che non possiamo contribuire a martellare tutti al punto da aggravare la crisi economica in corso.

E’ chiaro quindi che dobbiamo modulare ed evitare manovre recessive. Considerando le capacità reddituali attuali e negli anni a venire di chi deve sostenere gli interventi.

Il nostro piano considera innanzitutto l’aggravio per i milanesi derivante dall’ultima manovra Monti sulla casa di circa 400 milioni, in termini di reintroduzione dell’Ici sulla prima casa e modifiche sulle seconde case. Quindi noi siamo forzati comunque a aggiungere sacrifici a sacrifici. E infilare il coltello in una ferita già aperta fa male.

Quindi dobbiamo stare molto attenti a come moduliamo questa proposta. Il rischio è di affossare la città in un momento tanto critico. Ci stiamo lavorando e c’è un gruppo dedicato che sta sviluppando l’istruttoria, con gli scenari possibili. Entro 10-15 giorni avremo una bozza che discuteremo per arrivare, a fine marzo, al piano definitivo di bilancio.

Il fiore all’occhiello della Moratti era quello di non aver messo addizionali Irpef….

Certo, e lo stiamo tutta pagando ora. La politica del passato è stata anche quella di non raccontare la verità della difficoltà strutturali delle casse pubbliche milanesi, con il continuo ricorso al mantra che non si mettevano le mani nelle tasche dei milanesi.E così il deficit si accumulava implacabile.. Non è detto che si debba ricorrere ad addizionali Irpef su tutti gli scaglioni. Non è detto, perché l’intenzione è quella di non fare stillicidio di interventi sull’entrate, Imu, Irpef, Tarsu….Ma di ragionare come si fa a semplificare e pesare su categorie che hanno più possibilità di pagare. Faccio un esempio: se noi facessimo solo l’Imu seconda casa ai livelli più alti, ma esentando le case affittate a canoni concordati questo equivarrebbe a dire che paga chi ha di più e che non l’affitta a canoni accettabili. Ragionando non solo su politiche di tassazione, ma anche di incentivo a chi affitta a prezzo equo. A loro abbatto l’aliquota al minimo. A Milano stimiamo qualcosa come 70-80mila case sfitte. E’ un modo per aiutare studenti, giovani e famiglie meno abbienti.

Altre forme di entrata?

Molto probabilmente faremo la tassa di soggiorno, ma sugli alberghi a 4-5 stelle, di fascia alta. Qualcosa sugli oneri di urbanizzazione. Poi una pesante operazione di spending review dentro il Comune, da 75-100 milioni di minori spese all’anno, destinate a raddoppiare negli anni futuri. Un’opera di taglio dei costi chirurgica e continua.

E poi la riallocazione degli investimenti. Dove la priorità oggi è fornire risorse all’Atm, per sostenere la nuova mobilità, avviata dall’area C. Cedendo qualcosa di non determinante.

E A2A?

L’eventuale vendita di A2A, da un punto di vista finanziario, non sarebbe un buon affare per Milano. La partecipazione del Comune ha un valore di libro superiore al valore di mercato. Questo significa che anche cedere una sola azione sarebbe una perdita. Ha minusvalenze importanti. Dalla fusione ad oggi ha perso circa un miliardo di valore. Qui sul piatto c’è l’ipotesi di una grande utility del nord, Milano e Brescia insieme a Genova e altre. Una strategia industriale di cui si sta cominciando a parlare, e vedremo quale esito avrà. Anche perché c’è una legge che impone in questo tipo di aziende la riduzione delle quote azionarie pubbliche sotto il 40% in due anni, e in tre al 30%. Però si può scendere anche senza vendere. Se si fa la fusione in una grande utility, con gli aumenti di capitale si possono diluire le quote. Hai una quota inferiore di una entità più grande.

Oggi la strada giusta è andare verso aziende specializzate, ben focalizzate su mercati di riferimento e con risorse e capitali per investire. Essenziali oggi nell’energia.

Anche perché l’A2A è un’azienda che ha di fronte a sé un obbiettivo di oltre 700mila milanesi da raggiungere con la rete di teleriscaldamento…

Noi possiamo anche scindere la proprietà da un progetto strategico. Ci siamo impegnati sul progetto di teleriscaldamento. Sono possibili sinergie anche con altri attori pubblici . Possiamo accelerare la rete. Stiamo persino studiando la possibilità di creare un autentico mercato aperto della fornitura di calore. Uno spazio in cui guadagnano assieme produttori e cittadini. Con vantaggi per l’ambiente di tutti.

Passiamo all’acqua pubblica, un tema molto sentito…

Mm è al 100% pubblica, e non abbiamo alcuna intenzione di andare a privatizzazioni. Il punto è sulla legge. Ma la mia sensazione è che l’acqua pubblica rimarrà tale.

Con la fine della Provincia cosa avverrà? Nascerà la città metropolitana oppure tutto verrà inglobato nella Regione?

Il Governo ha annunciato che vuole andare all’abolizione delle Province. E il presidente della Regione ha chiesto un’accelerazione. L’ipotesi di abolizione è quindi seria. Ovviamente le attività della Provincia andranno cedute a qualcuno. O alla Regione o alla città. Su questo siamo al dunque. Nel caso di Milano questo vorrebbe dire: una quota di Sea, Serravalle che in maggioranza è della Provincia, e poi Pedemontana e altre infrastrutture. E’ chiaro che per Milano è rilevante capire se o no queste infrastrutture diventeranno del Comune o della Regione Lombardia. Mi auguro che, nel frattempo, emerga, nel Governo, una visione accelerata della città metropolitana. Cosa possibile e necessaria. Se prevedi che non vi siano più le Province, necessariamente devi rafforzare le città metropolitane. Per forza. Questa accelerazione porterebbe a immaginare che molti asset debbano andare sulle città. Un’operazione più coerente. E’ comunque un tema politico aperto, ma che in questi mesi determinerà grosse decisioni. Di converso la regionalizzazione completa è molto problematica, per una città come Milano. Pensiamo alla mobilità su scala metropolitana.

Il Wi-fi, l’internet pubblica senza fili diffusa, è da sempre stato il tuo cavallo di battaglia…

I primi 50 punti di accesso negli uffici pubblici, appena partiti, sono solo un assaggio. C’è già la delibera approvata, per la creazione in una prima fase di 1200 siti, ovvero piazze e luoghi di accesso a banda larga all’aperto. Siti mappati sull’accesso più frequente dei cittadini, dove passa e si ferma la gente. Entro l’autunno sarà operativa, e sarà una rete federata. A cui potranno associarsi tutte le reti senza fili esistenti. O tutte quelle che vorranno nascere e collegarsi a questa. Con un solo codice di autenticazione per tutta la città. Noi vogliamo una rete di facile connessione anche per i telefonini. Su questo lanceremo un’internet free, accesso gratuito alla rete. Ovviamente non vogliamo entrare in concorrenza, né sottrarre mercato, ai gestori. Quindi una rete che non entra nelle case. Il nostro obbiettivo è diverso: ridurre il digital divide, con un terzo dei milanesi che non accede alla rete. E con tutti gli smartphone e telefonini avanzati che stanno arrivando, e che tutti comprano, davvero la rete diverrà un fatto invisibile, quotidiano. Poi tutto ciò per noi significa lanciare tutti i servizi online digitali che potremo, dai biglietti del tram, alle prenotazioni. Tutto il possibile, e a costi minori di erogazione dei servizi stessi. Ma prima dobbiamo creare l’autostrada.

La rete partirà a ciambella, dalle zone decentrate. Ovviamente in centro il digitale diffuso c’è già. Mentre è in periferia che puoi aggredire il digital divide.

Qual è oggi il clima di lavoro in Comune?

Noi abbiamo trovato una città, che ovviamente conoscevamo, rimasta molto indietro. Ma, quando metti le mani dentro il motore, ti rendi davvero conto del ritardo. Non è per dare la colpa a chi c’era prima, un esercizio che non sopporto, ma davvero, oggettivamente, è un’azienda di 16mila persone e 13 mila nelle partecipate, con una grande qualità di risorse umane in molti settori, ma gestita negli anni scorsi con un eccesso di invasione politica nella gestione amministrativa, che credo debba rimanere sempre separata dall’indirizzo politico (che è il compito specifico di sindaco e giunta)

Per esempio nell’informatica….

Sì. Qui abbiamo fatto una riorganizzazione cambiando un terzo dei dirigenti, e faremo investimento sui sistemi informativi e l’agenda digitale. Qui l’informatica comunale aveva bisogno di essere orientata all’innovazione, contaminata da know how esterni. Un’area critica, su cui non si è investito in passato in modo razionale. Innanzitutto sulle risorse umane, decisive in campi come questi. Dove ora, per esempio, bisogna inventarsi nuovi servizi sulla rete.

Passiamo infine alla Zona 3. Qui uno dei principali punti in discussione riguarda Città Studi. Dove si contendono due progetti. Il campus sostenibile del Politecnico contro la città universitaria….

Credo che ogni progetto di sostenibilità debba essere visto non solo dal lato di chi lo propone ma anche degli stakeholders di quel territorio. In questo caso mi pare necessario applicare questo principio.

E’ stata avanzata la proposta di lanciare campagne sperimentali di finanziamento di opere pubbliche cittadine da parte dei cittadini. E’ il caso della Piscina Ponzio, che avrebbe bisogno di lavori per circa 500mila euro, e dove potrebbe decollare, in zona, un’iniziativa “un euro per la Ponzio”. Che ne pensi?

Cento anni fa, su una modalità non dissimile, è nata l’Aem. A seguito di un referendum. Con il principio della partecipazione civica. In quel caso era in discussione se farla. Sono assolutamente convinto che queste iniziative mirate dal territorio, date anche le dimensioni degli investimenti, e la domanda di servizi pubblici, abbiano uno spazio altissimo. Però devono essere iniziative identificabili, chiare, credibili, e con piani di fattibilità economica. Abbiamo fatto un ricerca sulla finanza di scopo, la finanza civica e gli spazi sono enormi. Devi essere molto credibile sul progetto, sul suo racconto e sui suoi fondamentali. In questo caso il “marchio” Comune è molto forte.

Poi, a fronte di una carenza di risorse, può essere decisivo attivare anche attività micro su base locale. Possiamo inventarci molti modelli partecipati. Ma il Comune deve essere credibile per attivare altre iniziative autonome. Possiamo persino pensare a società di scopo con i cittadini azionisti.

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Beni comuni

 

 

Nè privato e nemmeno pubblico alla vecchia maniera.

L’idea di Lucarelli è notevole: ricostruire la politica intorno ai beni comuni e alla loro gestione partecipata. A partire dai comuni, dal territorio.

E’ la forma di opposizione dal basso possibile, e probabilmente duratura, oggi.

Certo che però, a cascata, dal fiscal compact europeo al patto di stabilità interno, questo movimento dei “Comuni per i beni comuni” avrà vincoli enormi. A meno di non riuscire a rendere lo slogan un sistema di pratiche auto-sostenibili.

Non è impossibile, forse, di certo sarà molto difficile. Ma Lucarelli espone finalmente un’idea. E un progetto. Dopo, a sinistra, anni di conservatorismo, di silenzio, (e di acquiescenza dalemiana al pensiero dominante).

 

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Bello e impossibile

Anche un eurocrate, o un qualsiasi tedesco di buon senso, può pensare di vivere in un paese che ogni anno per 10-15 anni, ogni dodici mesi, deve varare una manovra di tasse o minori servizi pubblici per 40 miliardi (due punti di Pil). E su un Pil  di 1500 miliardi, piccolo, che cresce al massimo all’1%?

Si può pensare a questa roba quando, dal marzo scorso (11 mesi filati) ogni richiesta di un bilanciamento, ovvero gli eurobond, è stata sistematicamente rifiutata dal governo tedesco (l’ultimo rifiuto l’altroieri a Davos)?

Andiamo. Qui qualcuno è andato fuori di testa.

Cari eurocrati e tedeschi del Six Pack questa non è disciplina di bilancio. E’ pura follia. Significa costringere l’Italia o a un regime di polizia e alla fine della sua democrazia oppure a uscire dall’Unione europea. Significa dare ragione ad Andrea Fumagalli, l’economista radicale, che propugna il default controllato dell’Italia, l’uscita dall’euro e la svalutazione competitiva di una neo-lira.

Spero vivamente che Monti si renda conto di quest’autentica buffonata punitiva con contorno di krauti. Il Pd, imbambolato, non ha la forza di rammentarglielo. Il Pdl manco più esiste. Tagliare spese e aumentare entrate per due punti di Pil all’anno per oltre un decennio (o forse persino due, a semplice matematica, se la crescita resterà quella del ventennio berlusconiano…), per riportare il debito pubblico dal 120% attuale al 60% prescritto, è l’ultima triste barzelletta dettata da Berlino e compilata a Bruxelles.

Meglio invece una cosa seria: un euro e una banca centrale vera dell’euro. Capace di difendere la moneta comune.

E una prospettiva certa di poter abbattere il debito con titoli di stato a tassi di interesse dell’1% garantiti dalle autorità europee. Come ha proposto a Davos George Soros riprendendo uno schema che era di Tommaso Padoa Schioppa.

Il six pack avrebbe senso solo a queste due condizioni. Altrimenti è pura follia.

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Monti is fit to run Italy

Piacevole leggere l’Economist di questa settimana. Erano due decenni che un capo di governo italiano non riceveva una recensione tanto positiva. Nemmeno Prodi era riuscito a tanto.

Il pezzo dell’Economist è in pratica il resoconto del viaggio di Monti a Londra. Campeggia il suo messaggio di reinclusione degli inglesi nell’Europa, dopo lo strappo di Cameron sul trattato fiscale (e finanziario).

Basterà a mantenere la luna di miele?

Ovviamente no. Come per tutti è il risveglio dell’Italia dal ventennio berlusconiano (stagnazione e alta illegalità) il vero banco di prova.

E le liberalizzazione annunciate non bastano.

«I prossimi obiettivi del governo sono una semplificazione della burocrazia, con una maggiore attenzione alle nuove generazioni», ha rincarato il professore.

E’ un buon secondo passo. Speriamo.

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Le conseguenze politiche di Monti

Se è vero quello che Monti sostiene e prevede (e non ho motivo al momento per dubitarne), ovvero che questo decreto liberalizzazioni produrrà un effetto a medio termine di crescita del Pil dell’11%, e a breve termine una più rapida uscita dalla recessione, le conseguenze di questa svolta andrebbero seriamente valutate.

Un’Italia aperta, concorrenziale e fluida. Un paese più innovativo e meno ingessato e costoso avrebbe bisogno, perchè questa svolta si radichi, di una diversa Pubblica Amministrazione e di una diversa classe politica.

Avrebbe bisogno di un’amministrazione più snella (per esempio con l’abolizione delle Province e il drastico ridimensionamento delle Regioni) e di una classe politica orientata ai cittadini e ai servizi, e non al populismo e/o agli affari da retrobottega.

I servizi, anche pubblici, non dovrebbero vivere di monopoli. E quantomeno dotarsi di sistemi di feedback dagli utenti (come ormai fanno tutte le aziende di qualità) usando l’enorme spazio digitale a disposizione. Ma feedback realmente utilizzati, non finti o di facciata.

Per esempio. Trenitalia ha realmente valutato la drastica chiusura dei treni notturni a lunga percorrenza sui giudizi degli utenti? E una nuova impresa concorrente non potrebbe riaprire queste linee “storiche”?

Una nuova classe politica, poi. Qui un saggio edito alla Bocconi, e anticipato in passi dalla Voce info, dice molto.

La svolta di Monti, se funzionerà (come credo), sarà di fatto la fine del Berlusconismo e del Leghismo. Ma anche di una certa sinistra con il bilancino dei piccoli privilegi e bilancini.

Quello che, faticosamente, si cerca di sostenere su questo blog. Una nuova generazione di classe dirigente allo stesso tempo modernamente colta e risorgimentale.

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Una flat per svegliare internet

Seconda misura per lo sviluppo (reale).

Premessa: oggi su Internet nessuno riesce a far fruttare i propri contenuti. Salvo le solite multinazionali.

L’Italia dovrebbe dichiarare la propria uscita unilaterale dagli accordi internazionali sul diritto d’autore. E ristabilire un diritto d’autore, come nella Costituzione Americana, non superiore a vent’anni, contro i settanta di oggi.

Non solo: dovrebbe istituire la licenza collettiva sui diritti d’autore. E implementare su internet un meccanismo, quale quello proposto dall’Eff anni fa, simile a quello vigente da quasi un secolo sulle radio.

Si paga una flat (una tassa sull’abbonamento, diciamo di dieci euro) e si fruisce di ogni contenuto. Poi i proventi delle flat vengono ripartite secondo le fruizioni certificate.

In questo modo qualsiasi autore sarebbe incentivato a produrre contenuti per la rete, con un ritorno atteso.

Non il regime proibizionista, o di pseudo-illegalità attuale.

(questo blog, in caso, avrebbe un reddito infinitesimamente approssimato a zero)

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Perchè ho un po’ di fiducia

Il decreto che verrà emanato domani è piuttosto vasto.  Il Sole, come è suo solito, lo anticipa per quanto possibile integralmente.

Servizi, energia, semplificazione all’avvio d’imprese, più concorrenza anche nei servizi pubblici locali, difesa dei consumatori (assicurazioni e banche). Dietro ciascuno dei capitoli del decreto ci sono norme e regole che aspettavano da anni, se non decenni.  Spesso disattese da precise indicazioni dell’Unione Europea.

Come sempre però l’impressione positiva generale non deve  fuorviare da criticità su singoli punti. Ma immettere concorrenza in un sistema ingessato, in una fase di crisi che minaccia di avvitarsi su se stessa, è di sicuro cosa giusta.

Mancano però alcuni punti su cui andrebbe fatta una riflessione più approfondita. Le telecomunicazioni, per esempio, che appaiono fuori dal decreto perchè ritenute già completamente liberalizzate. Ed è in gran parte vero.

Liberalizzate ma non terreno di crescita. Non si prevede uno spazio di innovazione, in questa manovra. Come potrebbe essere uno spazio pubblico, anche piccolo, nelle frequenze appena liberate dal digitale terrestre per la sperimentazione diffusa delle cosiddette “software defined radio”, una tecnologia di comunicazione digitale esistente da anni, ma finora bloccata, ovunque nel mondo, dall’assetto “ufficiale” delle frequenze.

Quanto costerebbe rendere pubblicamente aperto uno spazio dell’etere per questa innovazione e quanto potrebbe generare? Io non lo so, ma nell’inerzia attuale mi parebbe sensato provarci. In un paese dove è stata inventata, di fatto, la carta telefonica prepagata, che ha innescato l’autentico mercato di massa dei cellulari.

Vogliamo fare qualcosa di realmente avanzato, per una volta?

 

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L’Europa è un tavolo da ping pong

Il 2012 segnerà il ritorno ai grandi numeri pre-crisi per gli hedge fund. Secondo gli analisti di Barclays quest’anno, a livello globale, ci sarà un’impennata di 80 miliardi di dollari nel flusso degli investimenti in fondi speculativi. Se queste cifre si confermeranno si assisterà all’incremento più sostenuto dal 2007, cioè da prima del crack della banca americana Lehman Brothers. Le aspettative per l’anno in corso da parte degli addetti ai lavori sono di un anno record nei fondi investiti.
*Hedge funds= Fondi speculativi
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MILANO - Se persino l’ Osservatore Romano parla di «tempismo sospetto» e i cinesi dubitano della credibilità di Standard & Poor’ s quando declassa Italia, Francia e altri sette Paesi dell’ Europa, forse davvero qualcosa non va nel meccanismo dei rating. Il banchiere d’ affari Guido Roberto Vitale, 74 anni, crede alla teoria del complotto. Di più: parla di «terza guerra mondiale», giocata anche attraverso i rating. «Premessa: io in casa ho due vecchie gloriose bandiere americane al posto di due quadri. Ciò detto, è sorprendente o quantomeno singolare il tempismo delle agenzie nell’ occuparsi d’ Europa». Anche lei ha dubbi sulle agenzie? «L’ Italia sta facendo uno sforzo enorme per rimettere in sesto i conti, Germania e Francia cominciano a riconoscerci il merito dei sacrifici, il mercato pure; e le agenzie di rating improvvisamente ci sparano addosso. Credo che non sia solo frutto di una rigorosa coscienza professionale ma sia anche ispirato da certi ambienti americani, conservatori in politica estera e interna, che continuano ad avere una concezione imperiale degli Usa e che malvolentieri – ma secondo me in maniera molto miope – vedono la nascita di una moneta forte in Europa».

Praticamente la terza guerra mondiale. «Stiamo in qualche modo vivendo una terza guerra mondiale che per ora per fortuna non ha fatto morti né distruzioni fisiche. Poi per ragioni di opportunità si può dire che non è vero, che è solo la poca buona volontà dell’ Europa di darsi istituzioni comuni. Ma in realtà questa è la terza guerra mondiale». L’ Europa che cosa dovrebbe fare? «Accelerare l’ unificazione politica, economica, fiscale e finanziaria, avere una banca centrale prestatrice di ultima istanza e creare un’ agenzia di rating per valutare aziende e istituzioni del Nord America e dei Paesi nei quali vuole investire.

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Ho messo queste tre citazioni in sequenza per chiarire a me stesso un punto.

Ho ben chiaro che gli Usa, dalla follia del 2007 e 2008, sarebbero usciti falliti se non fossero stati detentori di moneta di riserva mondiale. Ho anche ben chiaro che gli Usa sono, a differenza dell’Europa (Gran Bretagna esclusa) gli unici che stanno continuando a godersi un certo bengodi.

Quindi Vitale coglie, a mio avviso, elementi di verità. Aggiungo che il dollaro fallito fa gioco ai cinesi, che vi devono esportare. E aggiungo che le piazze finanziarie speculative sono quanto resta a Gran Bretagna e in parte Usa (fatta eccezione per il militare) come motore delle loro economie.

Ma a questo a dire che vi sia un complotto no. No, c’è solo un sistema robotico software planetario. Ed è pure peggio di un complotto tra umani. Almeno l’ultimo lo blocchi con quattro accuse e arresti. Una rete di algoritmi, puntati sul massimo profitto a breve, no.

Certo, quelli dei ratings sono un po’ conservatori. Specie dopo l’ultima tremenda figura che hanno fatto nel 2008. Hanno qualche vizietto. Fanno generalmente il tifo per Wall Street e la City, casa loro. E in Europa, nonostante la sua economia faccia pena, tendono a salvare la Gran Bretagna. E a picchiare duro su quei comunisti di francesi e italiani.

Nessun complotto, solo noi che non sappiamo difenderci.

 

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