I miei auguri

Certo, non è facile, nella situazione attuale, fare degli auguri credibili. Ai pochi che ogni tanto leggono queste righe, ma anche a tutti gli altri, che stanno vivendo anni davvero duri.

Eppure continuo a pensare che stiamo girando dentro un gigantesco paradosso. La più grande massa di risparmi d’Europa e la minore capacità al mondo di tradurli in investimenti domestici, in nuove e redditizie imprese, in lavoro, in capitale produttivo. E di qui in minor debito pubblico, nella fine del macigno che dal 1981 ci ha schiacciati, e poi ci ha degradati, impoveriti, corrotti.

Scrivo ai due milioni di italiani che per disperazione se ne sono dovuti andare all’estero. Chi a Londra, chi negli Usa, in Francia, Germania e oltre. Vittime del blocco di un’accumulazione di capitale, ma anche d’impresa e di beni pubblici che ha progressivamente paralizzato, e poi degradato, lo stato italiano. E sta distruggendo l’industria. E larghi pezzi di società civile.

Ma non solo. In Italia non esistono più le banche. Sono diventati istituti di gestione patrimonale standard. Onorevole mestiere, per carità. Ma la paura, ormai la cifra della nazione, rende ancora più impossibile e negato ciò che è stato impossibile da trent’anni. Il capitale di rischio, la dotazione di fondi sulla fiducia ai nuovi imprenditori, o persino agli operai che non vogliono essere trascinati nel crollo del proprio imprenditore.

Tanti anni fa, e per una breve stagione felice, questi finanziatori lungimiranti c’erano. Le grandi imprese tessili fallite di Prato lasciarono il posto a unità piccole avviate dai loro operai. E fu la nascita di una straordinaria area-sistema. E così a Bergamo nella meccanica strumentale, e nel Veneto. Oggi  nelle banche comandano gli analisti e i loro modelli matematici di importazione, per ottimizzare la gran massa patrimoniale detenuta dal 20% delle famiglie italiane abbienti. Solo il 30% del debito pubblico nazionale è in mano a queste famiglie. E gli asset propriamente italiani non superano il 10% dei 4mila miliardi.

Abbiamo alle spalle tre anni in cui il rubinetto dell’ossigeno per le imprese è stato chiuso, in nome di un affannoso risanamento di crediti dubbi e partite incagliate dell’immediato passato. Fino a presentarsi al giudizio supremo della Bce con i bilanci in ordine, ma con l’industria a pezzi.

Tralascio casi specifici. Il dato di fatto è che, dal 2008 ad oggi, il sistema bancario italiano non è più stato in grado di svolgere il suo ruolo primario. Il sostegno all’accumulazione sociale di capitale, finanziario e umano.

Nè lo Stato, messo sotto torchio dai sempre più stringenti poteri e obbiettivi europei. Abbiamo avuto gli anni di Monti, poi di Letta e quindi di Renzi. Tasse e tagli, tagli e tasse.

Soprattutto nelle aree più critiche. Le università immiserite, la ricerca tagliata, gli investimenti sforbiciati.

Salvo però lo sperpero di 10 miliardi in un bonus elettorale di 80 euro supposto detonatore dei consumi, in realtà usato dalle formiche italiane per sanare debiti o mettere da parte qualche altra scorta precauzionale.

Supponiamo invece che quei 10 miliardi fossero andati a ciò che davvero manca. A un soggetto pubblico finalizzato alla creazione di impresa (o alla rivitalizzazione di impresa), capace di rischiare, capace di riempire buchi storici del sistema Italia.

Seguo le vicende del venture capital dal 1985. Dai primi esperimenti di Elserino Piol all’Olivetti. Ebbene, salvo la piccola parentesi “drogata” della bolla internet del 1998-2000 in Italia il capitale di rischio è sempre stato affare per pochi intimi privati in Italia.

Ok fino a che si viaggiava a qualche decina di business plan all’anno. Ma da qualche anno siamo a 3mila. Una intera generazione, con le spalle al muro, ci prova. Dall’altro lato pochissimi intelocutori, e tra i pochisssimi ci metto anche gli sperperi regionali su improbabili incubatori d’impresa, spesso deserti. Il capitale di rischio in Italia è un lavoro per, al massimo, una ventina di soggetti.

C’è il capitale umano per costrure uno strumento pubblico di autentica creazione d’impresa? Certo che c’è, ed è spesso fuggito all’estero. Ci sono le idee? Si. C’è la voglia? Certo.

Da anni si parla di un “fondo di fondi” pubblico in grado di sostenere il venture capital italiano. Dai tempi del ministro Stanca, e poi della legge sulle startup di Passera-Monti (che semplificò molte cose ma, guarda caso, lasciò sulla carta il suo articolo istititutivo del fondo di fondi).

E allora? Dove il sistema fallisce è necessario un intervento. Un rivitalizzatore dell’accumulazione d’impresa. Un soggetto in grado di attingere, e proficuamente, sia ai prestiti primari della Bce che a quei 4mila miliardi di risparmi mobiliari italiani e di trasformarli in investimenti in Italia. Attraendo investimenti e non torchiando i risparmiatori con altre tasse.

Oggi gli italiani finanziano spontaneamente Telethon. Che sostiene al ricerca. Domani potranno, con la giusta comunicazione (anche in rete) sostenere nuove imprese che tolgono il loro territorio dalla depressione. Magari rinunciando a un punto percentuale di rendimento sui titoli, ma in condizioni di sicurezza, e per obbiettivi trasparenti e puliti.

Un nuovo modo di fare banca, capace di fondere crowdfunding, impatto sociale, solidarietà, banca etica, tutela del risparmio, ruolo dello Stato.

Guardiamo alle imprese che falliscono. E agli operai e ai dipendenti che cercano di fare continuare, magari in forma cooperativa. Chi ha il coraggio di sostenerli, di assisterli, di finanziarli? Di trovare manager che li aiutino, e di comunicare al territorio la nuova scommessa?

Guardiamo a quegli staordinari acceleratori di disponibilità liquide che sono le monete complementari, come il Sardex. E’ possibile pensare a una rete italiana, regione per regione, di queste “stanze di compensazione” per forzare i vincoli del credito e ridare fiato alle imprese, piccole e grandi che siano?

E’ possibile pensare a un soggetto finanziario pubblico, capace di prendere a prestito alla Bce allo 0,5% per produrre bond a lungo termine per la ristrutturazione energetica dei condomini (coibenzazione) in modo da far guadagnare tutti: inquilini, imprese qualificate e la stessa banca pubblica? E’ possibile, non facile ma possibile.

E’ possibile pensare allo stesso soggetto pubblico che interviene sulle piccole e medie imprese a rischio chiusra e poi ne produce titoli cartolarizzati che vengono comprati dalla Bce, secondo il suo programma di sostegno all’economia europea, a prezzi di favore? E’ del tutto possibile.

Venture capital, rinascita delle imprese in crisi, green economy, monete complementari, sostegno ai makers. E poi, con il procedere delle attività, destinazione degli utili di questa “public company” al sostegno alla ricerca, agli incubatori (veri), al matrimonio tra innovazione e beni culturali.

Questa entità a mio avviso non deve avere nulla a che fare con l’altra banca pubblica, la Cdp. Quest’ultima si occupa di altre cose, con logiche diverse. Questa deve essere una banca di giovani, e per i giovani. Una public company senza politici di torno, o pezzi da novanta dell’establishment bancario.

Su queste basi la scommessa è più credibile. Una dotazione di fondi iniziale da parte del Tesoro e poi l’emissione di bond garantiti, come rendimento minimo, dallo Stato. E da qui la capacità di camminare sulle sue gambe, facendo rendere la rinascita italiana.

E’ solo un’idea abbozzata. Ma è comunque utile se vi ho regalato un attimo di speranza. A questo servono gli auguri.

 

 

 

 

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Mettere al lavoro quei 4mila miliardi?

La sola chanche che ha l’Italia per uscire dal buco è che una quota di quei 4mila miliardi di cui sotto vada per attrattività a investirsi in lavoro produttivo e qualificato dei giovani italiani. Aiutando a nascere e crescere nuove imprese, e non senza un ritorno per chi mette i suoi soldi in un “fondo Italia”.

Scusate l’ovvietà.

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La lunga stagione della sfiducia italiana

Il punto della tragedia italiana sta qui, e solo qui. Il paese patrimonialmente più ricco d’Europa ma anche in più veloce impoverimento e disoccupazione.  Un paradosso percorso da una sfiducia profonda, abissale.

Giustificata da una classe politica e tecnocratica che ha fatto fallire il paese fin dal 1981. Senza poi mai riuscire a risollevarlo.

Quei 4mila miliardi in titoli ad accumulazione sono il frutto di anni e anni e di risparmi dettati dalla paura, da quella mandria di dementi di Roma, Montecitorio, Palazzo Chigi, da quel spendi e spandi di Bettino Craxi, del conseguente crack  del 92, del clamoroso errore della Banca d’Italia di Ciampi nel calcolare l’effetto dell’inflazione al 20% su Bot e Cct messi incautamente sul mercato. Generando un mostro di interessi su interessi, anatocismo. E poi Berlusconi, Tremonti con il loro sogno infausto di un nuovo miracolo italiano (e nessuna correzione nei conti). E infine la banca d’affari di D’Alema. E poi ancora Berlusconi, indifferente al cataclisma mondiale del 2007. Fino al secondo crack del 2011.

2 milioni di famiglie italiane abbienti hanno protetto i propri risparmi da questa gente. Punto. Ora continuano a farlo, anche se i tempi richiederebbero l’esatto contrario.

Tra le tante chiacchiere, consiglio la lettura del pezzo di Pavesi. E’ la grande risultante storica, la fotografia economica di un Italia divisa. Stretta nella paura da un lato e nella povertà dall’altro. E che, dentro questa frattura, sta affondando.

Berlusconi difende i privilegi dell’Italia ricca (Fininvest inclusa). Renzi, con il suo sciagurato Nazareno, non osa toccarla.

Non vi sono risorse oltre queste, ma sono anche, sulla carta, abbondanti. Ma Renzi è inerte, ha paura di politiche vere, e perde consensi.

Una semplice proposta.

La rivoluzione italiana (auspicabile) sarà patrimoniale (e non necessariamente punitiva) o non sarà.

- Renzi enumeri la crescita delle sentenze di processi civili completate in 15 giorni.

- Renzi esibisca tangibili risultati  in tema di evasione fiscale.

- Renzi metta in moto una visibile dismissione di patrimonio pubblico inutilizzato.

- Renzi tolga gli sprechi dagli appalti pubblici, con numeri alla mano.

- Renzi mostri almeno 50 casi di corruzione pubblica puniti.

Fatto ciò (quindi guadagnatosi un po’ di fiducia coi fatti)….

Un prestito forzoso per la ripresa, sui 2 milioni di grandi risparmiatori, diviene argomento di cui parlarne.

 

 

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Quantitative easing intermediato?

Finalmente leggo una proposta intelligente a ridosso del Qe che si appresta a varare la Bce. Un eurobond privato, che però si appoggia su tutti i debiti pubblici europei, via banche. Un modo per aggirare i divieti politico-ideologici di Bundesbank e affini.

In mancanza di un processo esplicito e controllato di formazione di un (parziale) debito pubblico europeo, di un fiscal compact al contrario (ma formalmente in linea con i trattati), l’idea della Luiss mi va bene.

E’ comunque un passo “intermediato” per riattivare qualche politica economica (in primis, per abbassare la folle pressione fiscale di oggi) e poi, passo dopo passo,  per toglierci di dosso questa spaventosa maledizione del debito cominciata nel 1981. E ricostruire un’Italia e un’Europa degna di essere consegnata ai nostri figli e nipoti.

 

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Smontiamo Monti

 

 

Ho aderito, e parteciperò attivamente. Mi pare l’unica cosa sensata, ovvero un primo passo, da fare oggi.

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Quei tre giorni di novembre

9 novembre 1989, 10 novembre 2001, 4 novembre 2014. Pare, per un gioco sincronico della sorte (non vado oltre) che le date dei passaggi fondamentali della nostra storia recente siano avvenute molto vicine, come scandite da un grande metronomo. La prima: il crollo del muro di Berlino (testè festeggiato dalla Merkel), la seconda: la riunione di Doha dei 142 paesi del Wto in cui si invitò la Cina a unirsi al club del libero commercio mondiale, scatenando la grande globalizzazione. La terza, oggi: il risultato paradossale delle elezioni Usa di Mid Term, con la disfatta di Barak Obama.

Tre punti coincidenti della trasformazione del mondo.

Tutte e tre le tappe, a mio avviso, fanno parte di un percorso discernibile. Ovvero, la riforma del sistema ad opera dell’Occidente e della sua macchina capitalistica globale.

A Berlino fu chiuso il vecchio e insieme  avviato un nuovo assetto politico. Iniziò l’integrazione del blocco sovietico-alternativo. A Doha fu completato e decollò  un nuovo regime economico e industriale (chiamato globalizzazione). Oggi siamo alla retroazione, con la crisi degli stessi paesi che l’hanno promossa: Usa e soprattutto Europa, la “grande malata” odierna dell’economia mondiale, secondo l’Economist. Un occidente impoverito, deindustrializzato, senza equilibrio e futuro.

E questo rende necessaria la terza tappa.

Partiamo dal paradosso della sconfitta di Obama alle elezioni di medio termine. In apparenza aveva tutte le carte per vincere, anzi stravincere. Grazie al dollaro, moneta imperiale e di riserva, e grazie a una Fed libera di agire (a differenza della Bce), il secondo mandato di Obama vede una spettacolare fuoriuscita dalla crisi dell’economia statunitense, il mantenimento della sua cruciale industria finanziaria, il riveglio diffuso del comparto dei servizi, tassi di crescita al 4,5-4%, disoccupazione al 6,0%.

E, insieme, la prima entrata a regime della riforma sanitaria dei democratici, che in qualche misura creerà un rete di sicurezza anche per i più poveri.

Si potrebbe continuare con l’elenco. E ce ne sarebbe in abbondanza, stando a queste cifre, per un bollettino di consenso e vittoria.

Eppure, su una scala gigantesca, negli Usa ha dominato il pollo di Trilussa, l’illusione statistica.

Cinque anni di ripresa ma a favore dei soliti noti, dei soliti ricchi, del mondo finanziario che ha goduto della massima parte della moneta stampata dalla Fed, mentre per il ceto medio e operaio  la ripresa si è dipanata via lavoro precario a salario di sussistenza, debiti familiari ripagati con estrema fatica, redditi reali persino diminuiti dal 2008. Niente salari minimi, niente sussidi ai disoccupati, niente servizi pubblici aggiuntivi.

Risultato: il ceto medio Usa ha voltato le spalle a Obama. E la sua sconfitta ne è seguita.

Una ripresa altamente architettata, costosa, ma alla fine fragile, su una nazione indebolita da 15 anni di dilettantesca globalizzazione. Un’America che resta deindustrializzata, a bassi salari, con una ristretta elite di ricchi e super-ricchi.

Un grande paese, supposto guidare il mondo, che anche se è riuscito a rimettersi in qualche modo in piedi, denuncia evidenti caratteri di insostenibilità, specie se confrontato con gli Usa degli anni 70 e 80, a forte leadership innovativa, ad alti salari e welfare.

Gratta la ripresa finanziata dalla Fed e trovi l’America post Doha. Un sistema che ha mantenuto le controriforme impresse  dalla destra Usa (Reagan, Bush) e dalla destra democratica (Clinton). Un sistema che è e resta riplasmato dal suo grande capitalismo multinazionale.

Se questa è la fotografia degli Usa, a 15 anni da Doha, ancora peggiore è quella dell’Europa, e in particolare del Sud Europa.

A 15 anni da Doha imprese e produzioni sono scappate dall’Occidente. E cinesi e asiatici si sono appropriati non solo di quote di mercato, ma anche di processi di apprendimento industriali, di ricerca e sviluppo, di capacità finanziarie. Difficile che la produzione di router torni in California, che gli smartphone riapprodino in Finlandia, o i piccoli elettrodomestici in Olanda.

Un occidente proprio messo male. E di sicuro qualcuno, dalle parti di Washington, si è chiesto: se siamo la superpotenza, se dobbiamo reggere un mondo sempre più conflittuale, possiamo farlo in queste condizioni? Con questa base economica tanto fragile? E quanto possiamo durare?

Per le grandi multinazionali occidentali, per il governo Usa e per alcuni centri di potere europei, a 15 anni dalla destabilizzazione di Doha, c’è (a modo loro) una risposta.  Si chiama Ttip, Transatlantic trade and investment partnership.

L’idea di un blocco economico unificato Usa-Europa, capace di contare (con il Canada) per il 51% del Pil mondiale, capace quindi di tornare a dettare (come prima di Doha) le regole dell’economia mondiale. Superiore, per quanto crescano, a Cina e India. E internamente a sufficiente massa critica per rigenerare industria, profitti, finanza.

Piccolo problema. Il Ttip (nato in segreto a Bruxelles, e dalle sue lobbies) implica lo snaturamento dell’Europa. Delle sue regole, delle sue tradizioni, dei suoi valori. Verso un mondo amorfo americano-liberista, dominato dai grandi poteri economici, dal disprezzo delle persone, dall’inquinamento e dal profitto globale d ogni costo.

Un grande spazio di mercato per i prodotti a basso costo delle multinazionali, e di lavoro a “costi competitivi”. Dal Texas fino alla Toscana. Addio Europa della qualità, dell’alto artigianato e delle piccole e medie imprese.  Addio Europa del welfare pubblico. Un mercato unico, di bassi salari, precarietà, prodotti tirati all’osso (ma markettati molto bene).

Il negoziato tra Usa e Ue, oggi in corso, punta  alla rimozione di tutte le barriere tariffarie e regolamentative tra le due aree. Niente dazi e “armonizzazione” delle regole di sicurezza alimentare, normative di lavoro, ambiente, energia,  reti, contenuti digitali, privacy, banche, appalti pubblici….In pratica tutto lo spettro degli scambi economici.

Il tutto regolato da un tribunale segreto e ancora più potente degli stati. Un ambito a cui una multinazionale può rivolgersi accusando un paese di attentare alle sue sacrosante aspettative di profitto. E ottenerne un congruo risarcimento. Come la Wattenfall che ha citato la Germania all’Icsid (il Centro internazionale per la regolazione delle controversie) per aver deciso l’abbandono dal nucleare. E ha chiesto al governo di Berlino un risarcimento di 4,7 miliardi di dollari.

Domani la Monsanto potrà denunciare l’Italia perchè non accetta i suoi organismi geneticamente modificati da impiantare, per esempio, nelle mucche perchè facciano più latte (agli ormoni). E il supremo trobunale del Ttip le darà ragione. E l’Italia, paese iper-indebitato, avrà una forza contrattuale, di fronte a minacce di multe miliardarie, pari a zero.

Con questo tribunale (Isds, investor state dispute settlement), fortemente voluto dagli Usa in tutti i trattati commerciali, di fatto si crea un’autorità suprema antidemocatica, che può avere l’ultima parola delle resistenze di quasiasi paese ai diktat delle multinazionali. Si veda al proposito come lo descrive il  conservatore Economist.

Di fatto, con questo meccanismo infernale avremo carne agli ormoni, ogm nei campi, controllo della privacy su internet, regimi di lavoro analoghi a quelli Usa e tante altre belle innovazioni frutto del Ttip.

Rusultato: un’enorme espansione dello spazio economico per i poteri forti che si stanno avvantaggiando dalla crisi.

Il terzo passo infatti ha un obbiettivo: punta proprio su di noi.

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Per saperne di più….

 

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Dopo il 25 ottobre in positivo

Il passaggio del ridimensionamento dell’articolo 18, ovvero dell’eliminazione del divieto di licenziamento per motivi economici (unico al mondo), mi pare compiuto. Certo, ha suscitato un fronte di opposizione piuttosto vasto, e la Cgil promette lunga battaglia.

L’Italia, messa com’è, ha bisogno di un’ennesima stagione di conflittualità? E su un simbolo, che gioca a nostro sfavore nell’immaginario imprenditoriale mondiale, ma poco a favore di un sistema industriale che sta andando a pezzi, e che licenzia via chiusure e delocalizzazioni di intere fabbriche?

La stagione conflittuale della Cgil potrebbe invece essere utile. Se focalizzasse su due obbiettivi, oggi per noi vitali. Primo. Grazie al doloroso “compito a casa” oggi compiuto ottenere da Bruxelles e dalla Bce le risorse per un significativo programma di investimenti pubblici, tale da risvegliare l’economia. E, secondo, la messa in opera di un vero e efficace sistema di ricollocamento, formazione, flexsecurity.

Su questi due obbiettivi la Cgil e la Fiom possono esercitare un ruolo decisivo, di spinta e di controllo. Possono persino divenire un soggetto attivo, insieme a Cisl e Uil, nel sistema di flexsecurity. Possono proporsi una strategia di evoluzione verso un sistema di relazioni industriali non più solo contrattato ma cogestivo, come mostra il vincente (piaccia o no) caso tedesco.

Se invece sceglieranno la strada del muro contro muro sarà solo un’ennesima stagione perduta per l’Italia.

 

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Vive la France

Lo schiaffo francese a Bruxelles è in piena faccia. Forse l’Europa è ancora viva. Forse l’incubo tedesco comincia ad allontanarsi. Forse un continuum Parigi-Londra-Roma inizia a formarsi. Forse politiche più ragionevoli sono all’orizzonte. Forse ne usciamo pure noi.

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Perchè devo accettare la riforma dell’articolo 18

Pur avendo fatto la campagna elettorale con la Lista Tsipras (Per la sua promessa per una conferenza europea sul debito, finora disattesa), sono d’accordo, un po’ a denti stretti, per la riforma dell’articolo 18.

Il motivo è semplice. Se l’Italia andrà avanti come ora per altri cinque anni sarà l’ombra dell’ombra di se stessa. Un paese al di sotto dei livelli civili dell’Estonia o dell’Ungheria, un fanalino di coda assoluto. Da cui emigreranno non solo giovani ricercatori o laureati, ma giovani e basta, spinti da quel 45-50% prevedibile di disoccupazione (e sotto-occupazione) delle nuove generazioni.

L’Italia era fallita già nel 1992, grazie a statisti come Bettino Craxi, Giulio Andreotti, Giuliano Amato. Poi la lunga fola berlusconiana non ha fatto che peggiorare le cose. Questa  gentaglia ha distrutto il paese, regalandoci il secondo maggiore debito pubblico del mondo, che ogni anno ci divora il 5-6% del Pil, soldi nostri, nostre tasse, che vanno a remunerare banche, investitori e speculatori internazionali, e un po’ di famiglie ricche.

Non vi è modo di mettere quel 5-6% al servizio del rilancio dell’Italia. Che davvero farebbe la differenza. E questo da 25 anni filati. Morale, l’Italia è in austerità dal 92, in stagnazione e i soloni di cui sopra (compresi altri di sedicente sinistra)  ci raccontano la favola di una Italia spendacciona, che vive oltre i suoi mezzi. Siamo spremuti e pure derisi.

Certo, non abbiamo ripagato il debito e gli interessi grazie a un’evasione fiscale dilagante (favorita dalla criminale politica fiscale al contrario di Berlusconi e Tremonti), certo l’Italia onesta veniva e viene torchiata oltre ogni record europeo. Certo, la criminalità organizzata, la corruzione e il lavoro nero hanno fatto la loro parte. Quando un paese consente che un quarto del suo reddito si occulti, la partita del debito è matematicamente persa. E così interessi non pagati e trasferiti a nuovo debito hanno costellato i 25 anni. Il risultato è che già nel 2011 eravamo sull’orlo del precipizio. E i mercati se ne sono accorti….

Di fatto siamo arrivati alla crisi del 2011 come un “papero seduto”, per dirla all’americana. Ci hanno massacrato, così come ci massacrarono nel 1992, quando George Soros capì che l’Italia craxiana-andreottiana era fallita e si mangiò a spese nostre tutte le riserve della Banca d’Italia, poi affannosamente ricostituite con i prelievi forzosi notturni di Giuliano Amato, l’ex compare del malaugurato lider maximo socialista.

In quei giorni Beniamino Andreatta (uno e dei comprimari del disastro) lavorava a un piano di “default” dell’Italia. Un fallimento ordinato. Molto probabilmente meglio della lunga, venticinquennale agonia economica che ha dovuto subire questo paese. Ma qualche potere forte non volle “il nuovo inizio traumatico”, preferì il continuum Amato-Ciampi-Berlusconi.

Oggi il paese continua ad essere fallito come allora (non si è mai davvero ripreso), ha galleggiato, ora sprofonda.

Perchè sprofonda? Semplice. Perchè il suo fallimento, il suo debito inamovibile,  priva l’Italia di ogni risorsa pubblica. La priva di ogni sovranità economica. Perchè è divenuta così debole da dover sottostare alla lettera ai vincoli e ai diktat europei e dei mercati finanziari, perchè il suo debito pubblico si avvita, tra Pil che decresce e debito che aumenta e deve continuare a pagare una montagna di interessi. A spese di qualsiasi investimento per lo sviluppo.

Dove può trovare i soldi (a breve) oggi l’Italia? Da una lotta all’evasione che arranca a colpi di decine di milioni (quando ci vorrebbero miliardi)? Da una revisione della spesa pubblica irta di difficoltà e di lobbies armate fino ai denti? da un’ abolizione delle Province macchinosa? Oppure dal taglio delle pensioni, della sanità pubblica, di quanto resta dello stato sociale? Abbiamo letto innumeri itoli di giornale su questi temi. Nel concreto finora niente.

Per questo ci siamo persi dal 2007 il 10% del Pil e un quarto dell’industria italiana senza di fatto poter reagire.

Un paese così è paralizzato nella depressione, condannato a diventare come le Filippine.

Mario Draghi lo ha detto chiaro a Renzi questa estate. Se vuoi che noi della Bce ti diamo i quattrini che servono all’Italia per ripartire, se vuoi che Bruxelles allenti in diktat sul 3% di deficit e poi sul pareggio di bilancio, devi darmi  in cambio qualcosa di significativo. Una riforma che faccia il giro dell’economia globale. Devi cancellare il fatto che, unica al mondo, in Italia le aziende si devono sposare ex lege i dipendenti, nella buona e cattiva sorte. Devi togliermi di torno l’articolo 18.

Stiamo parlando di un segnale. Non per l’Italia, ma oltre l’Italia. Per chi davvero la controlla.

Draghi, presidente della Bce, è in un vaso di ferro. Ma sopra ha un vaso d’acciaio, la Bundesbank e il governo di Berlino. E questo governo è stato eletto con i voti conservatori di risparmiatori tedeschi, ossessionati a non pagare, via euro, i debiti dei paesi europei spendaccioni, mafiosi, ndranghetisti come l’Italia. Lo abbiamo visto per il disastro greco.

L’unica carta che ha Draghi per lanciare il suo programma (da tempo studiato) di massicci acquisti di Bot e Cct (e altri) è quello di mostrare alla Bundesbank e ai tedeschi un trofeo sanguinante. Appunto l’articolo 18.

In Italia si sta cambiando registro. L’autunno caldo del 69 è stato archiviato.

E allora la domanda è: ci conviene? Quanto potrebbe darci Draghi in cambio del trofeo? E ci conviene comunque abolire quella norma (che di fatto proibisce i licenziamenti economici)?

Ho cercato ovunque una risposta alla prima domanda e non l’ho trovata. Draghi tace (ha sul collo la Bundesbank ed è comprensibile), Renzi tace. La partita è al buio.

Sulla seconda domanda invece sono i fatti a parlare. Negli scorsi decenni l’articolo 18 per i licenziamenti economici è stato totalmente aggirato, tramite gli scorpori di rami d’azienda (poi fatti fallire e chiudere) e tramite la semplice liquidazione delle imprese.

Quindi d’Alema e Bersani stanno difendendo un bidone, morto e stramorto da decenni. Ma che invece contribuisce a questa immagine dell’Italia come paese a rischio molteplice, non solo mafioso ma anche giudiziario, per chi vi investe.

L’abolizione dell’articolo 18 sui licenziamenti economici determinerà un afflusso di investimenti dall’estero in Italia? Me lo auguro, ma nessuno lo sa.

I tempi sono diventati brutti, non c’è più tempo per una logorante guerra di trincea. Lo schema proposto da Renzi di ridimensionamento del reintegro solo ai licenziamenti discriminatori e disciplinari ingiusti mi pare ragionevole.  Ora però chiedo. Facciamo pure questa (costosa) riforma “simbolica”.

In cambio di cosa? Possiamo avere impegni, cifre, un po’ di speranza? Ci può spiegare il punto Bruxelles e la Bce? O magari anche Renzi stesso?

Ci può spiegare, con impegni credibili e fondi (magari europei) se e come vorrà costruire quel sistema di flexsecurity per aiutare nel reimpiego chi viene licenziato? Sarebbe l’unica risposta seria al ridimensionamento pesante dell’articolo 18.

 

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Benvenuti in Grecitaly

Quindici giorni fa è piovuta sulle nostre teste la solita, scontata, grande notizia. L’Italia invece di andare in positivo è tornata in negativo. I 90 euro del magico Renzi le famiglie se le sono tenute in saccoccia, sacrosanti risparmi precauzionali (con i tempi che corrono comprensibile) invece di spenderli in consumi, come avrebbero allegramente fatto (ora meno) famiglie americane o brasiliane.

Oggi è la volta del Consiglio dei ministri delle briciole. Se va bene tre miliardi, quando l’Italia ne avrebbe bisogno di trenta. Hanno raschiato un po’ di fondo del barile.

Morale, l’Italia continua nel suo segno meno, perde colpi nelle esportazioni e il mercato interno è comatoso. E non c’è politica economica.

Di questo passo questa barca scassata finirà matematicamente sugli scogli della Troika. E saranno i dolori insensati già vissuti da quei paesi.

Benvenuti in Grecia. Una Grecia al quadrato che finalmente farà affondare questa pagliacciata chiamata Europa.  Alias impero tedesco. Alias rigor mortis anche per la Francia.

E’ infatti l’Europa, proprio l’Europa, che sta affondando. E non solo l’Italia, con il macigno del suo debito che ha sfondato lo scafo. Viviamo in un mondo demente che ha consegnato le decisioni ai banchieri e agli speculatori. E non a rappresentanti eletti con potestà di decidere sull’euro.

Una moneta folle, in ostaggio dei contribuenti tedeschi e della Bundesbank. Tutta dentro una tecnostruttura, come l’Europa stessa.

In questi termini sarà la discesa comune verso il fondo. A meno di un sussulto.

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