9 novembre 1989, 10 novembre 2001, 4 novembre 2014. Pare, per un gioco sincronico della sorte (non vado oltre) che le date dei passaggi fondamentali della nostra storia recente siano avvenute molto vicine, come scandite da un grande metronomo. La prima: il crollo del muro di Berlino (testè festeggiato dalla Merkel), la seconda: la riunione di Doha dei 142 paesi del Wto in cui si invitò la Cina a unirsi al club del libero commercio mondiale, scatenando la grande globalizzazione. La terza, oggi: il risultato paradossale delle elezioni Usa di Mid Term, con la disfatta di Barak Obama.
Tre punti coincidenti della trasformazione del mondo.
Tutte e tre le tappe, a mio avviso, fanno parte di un percorso discernibile. Ovvero, la riforma del sistema ad opera dell’Occidente e della sua macchina capitalistica globale.
A Berlino fu chiuso il vecchio e insieme avviato un nuovo assetto politico. Iniziò l’integrazione del blocco sovietico-alternativo. A Doha fu completato e decollò un nuovo regime economico e industriale (chiamato globalizzazione). Oggi siamo alla retroazione, con la crisi degli stessi paesi che l’hanno promossa: Usa e soprattutto Europa, la “grande malata” odierna dell’economia mondiale, secondo l’Economist. Un occidente impoverito, deindustrializzato, senza equilibrio e futuro.
E questo rende necessaria la terza tappa.
Partiamo dal paradosso della sconfitta di Obama alle elezioni di medio termine. In apparenza aveva tutte le carte per vincere, anzi stravincere. Grazie al dollaro, moneta imperiale e di riserva, e grazie a una Fed libera di agire (a differenza della Bce), il secondo mandato di Obama vede una spettacolare fuoriuscita dalla crisi dell’economia statunitense, il mantenimento della sua cruciale industria finanziaria, il riveglio diffuso del comparto dei servizi, tassi di crescita al 4,5-4%, disoccupazione al 6,0%.
E, insieme, la prima entrata a regime della riforma sanitaria dei democratici, che in qualche misura creerà un rete di sicurezza anche per i più poveri.
Si potrebbe continuare con l’elenco. E ce ne sarebbe in abbondanza, stando a queste cifre, per un bollettino di consenso e vittoria.
Eppure, su una scala gigantesca, negli Usa ha dominato il pollo di Trilussa, l’illusione statistica.
Cinque anni di ripresa ma a favore dei soliti noti, dei soliti ricchi, del mondo finanziario che ha goduto della massima parte della moneta stampata dalla Fed, mentre per il ceto medio e operaio la ripresa si è dipanata via lavoro precario a salario di sussistenza, debiti familiari ripagati con estrema fatica, redditi reali persino diminuiti dal 2008. Niente salari minimi, niente sussidi ai disoccupati, niente servizi pubblici aggiuntivi.
Risultato: il ceto medio Usa ha voltato le spalle a Obama. E la sua sconfitta ne è seguita.
Una ripresa altamente architettata, costosa, ma alla fine fragile, su una nazione indebolita da 15 anni di dilettantesca globalizzazione. Un’America che resta deindustrializzata, a bassi salari, con una ristretta elite di ricchi e super-ricchi.
Un grande paese, supposto guidare il mondo, che anche se è riuscito a rimettersi in qualche modo in piedi, denuncia evidenti caratteri di insostenibilità, specie se confrontato con gli Usa degli anni 70 e 80, a forte leadership innovativa, ad alti salari e welfare.
Gratta la ripresa finanziata dalla Fed e trovi l’America post Doha. Un sistema che ha mantenuto le controriforme impresse dalla destra Usa (Reagan, Bush) e dalla destra democratica (Clinton). Un sistema che è e resta riplasmato dal suo grande capitalismo multinazionale.
Se questa è la fotografia degli Usa, a 15 anni da Doha, ancora peggiore è quella dell’Europa, e in particolare del Sud Europa.
A 15 anni da Doha imprese e produzioni sono scappate dall’Occidente. E cinesi e asiatici si sono appropriati non solo di quote di mercato, ma anche di processi di apprendimento industriali, di ricerca e sviluppo, di capacità finanziarie. Difficile che la produzione di router torni in California, che gli smartphone riapprodino in Finlandia, o i piccoli elettrodomestici in Olanda.
Un occidente proprio messo male. E di sicuro qualcuno, dalle parti di Washington, si è chiesto: se siamo la superpotenza, se dobbiamo reggere un mondo sempre più conflittuale, possiamo farlo in queste condizioni? Con questa base economica tanto fragile? E quanto possiamo durare?
Per le grandi multinazionali occidentali, per il governo Usa e per alcuni centri di potere europei, a 15 anni dalla destabilizzazione di Doha, c’è (a modo loro) una risposta. Si chiama Ttip, Transatlantic trade and investment partnership.
L’idea di un blocco economico unificato Usa-Europa, capace di contare (con il Canada) per il 51% del Pil mondiale, capace quindi di tornare a dettare (come prima di Doha) le regole dell’economia mondiale. Superiore, per quanto crescano, a Cina e India. E internamente a sufficiente massa critica per rigenerare industria, profitti, finanza.
Piccolo problema. Il Ttip (nato in segreto a Bruxelles, e dalle sue lobbies) implica lo snaturamento dell’Europa. Delle sue regole, delle sue tradizioni, dei suoi valori. Verso un mondo amorfo americano-liberista, dominato dai grandi poteri economici, dal disprezzo delle persone, dall’inquinamento e dal profitto globale d ogni costo.
Un grande spazio di mercato per i prodotti a basso costo delle multinazionali, e di lavoro a “costi competitivi”. Dal Texas fino alla Toscana. Addio Europa della qualità, dell’alto artigianato e delle piccole e medie imprese. Addio Europa del welfare pubblico. Un mercato unico, di bassi salari, precarietà, prodotti tirati all’osso (ma markettati molto bene).
Il negoziato tra Usa e Ue, oggi in corso, punta alla rimozione di tutte le barriere tariffarie e regolamentative tra le due aree. Niente dazi e “armonizzazione” delle regole di sicurezza alimentare, normative di lavoro, ambiente, energia, reti, contenuti digitali, privacy, banche, appalti pubblici….In pratica tutto lo spettro degli scambi economici.
Il tutto regolato da un tribunale segreto e ancora più potente degli stati. Un ambito a cui una multinazionale può rivolgersi accusando un paese di attentare alle sue sacrosante aspettative di profitto. E ottenerne un congruo risarcimento. Come la Wattenfall che ha citato la Germania all’Icsid (il Centro internazionale per la regolazione delle controversie) per aver deciso l’abbandono dal nucleare. E ha chiesto al governo di Berlino un risarcimento di 4,7 miliardi di dollari.
Domani la Monsanto potrà denunciare l’Italia perchè non accetta i suoi organismi geneticamente modificati da impiantare, per esempio, nelle mucche perchè facciano più latte (agli ormoni). E il supremo trobunale del Ttip le darà ragione. E l’Italia, paese iper-indebitato, avrà una forza contrattuale, di fronte a minacce di multe miliardarie, pari a zero.
Con questo tribunale (Isds, investor state dispute settlement), fortemente voluto dagli Usa in tutti i trattati commerciali, di fatto si crea un’autorità suprema antidemocatica, che può avere l’ultima parola delle resistenze di quasiasi paese ai diktat delle multinazionali. Si veda al proposito come lo descrive il conservatore Economist.
Di fatto, con questo meccanismo infernale avremo carne agli ormoni, ogm nei campi, controllo della privacy su internet, regimi di lavoro analoghi a quelli Usa e tante altre belle innovazioni frutto del Ttip.
Rusultato: un’enorme espansione dello spazio economico per i poteri forti che si stanno avvantaggiando dalla crisi.
Il terzo passo infatti ha un obbiettivo: punta proprio su di noi.
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