Certo, non è facile, nella situazione attuale, fare degli auguri credibili. Ai pochi che ogni tanto leggono queste righe, ma anche a tutti gli altri, che stanno vivendo anni davvero duri.
Eppure continuo a pensare che stiamo girando dentro un gigantesco paradosso. La più grande massa di risparmi d’Europa e la minore capacità al mondo di tradurli in investimenti domestici, in nuove e redditizie imprese, in lavoro, in capitale produttivo. E di qui in minor debito pubblico, nella fine del macigno che dal 1981 ci ha schiacciati, e poi ci ha degradati, impoveriti, corrotti.
Scrivo ai due milioni di italiani che per disperazione se ne sono dovuti andare all’estero. Chi a Londra, chi negli Usa, in Francia, Germania e oltre. Vittime del blocco di un’accumulazione di capitale, ma anche d’impresa e di beni pubblici che ha progressivamente paralizzato, e poi degradato, lo stato italiano. E sta distruggendo l’industria. E larghi pezzi di società civile.
Ma non solo. In Italia non esistono più le banche. Sono diventati istituti di gestione patrimonale standard. Onorevole mestiere, per carità. Ma la paura, ormai la cifra della nazione, rende ancora più impossibile e negato ciò che è stato impossibile da trent’anni. Il capitale di rischio, la dotazione di fondi sulla fiducia ai nuovi imprenditori, o persino agli operai che non vogliono essere trascinati nel crollo del proprio imprenditore.
Tanti anni fa, e per una breve stagione felice, questi finanziatori lungimiranti c’erano. Le grandi imprese tessili fallite di Prato lasciarono il posto a unità piccole avviate dai loro operai. E fu la nascita di una straordinaria area-sistema. E così a Bergamo nella meccanica strumentale, e nel Veneto. Oggi nelle banche comandano gli analisti e i loro modelli matematici di importazione, per ottimizzare la gran massa patrimoniale detenuta dal 20% delle famiglie italiane abbienti. Solo il 30% del debito pubblico nazionale è in mano a queste famiglie. E gli asset propriamente italiani non superano il 10% dei 4mila miliardi.
Abbiamo alle spalle tre anni in cui il rubinetto dell’ossigeno per le imprese è stato chiuso, in nome di un affannoso risanamento di crediti dubbi e partite incagliate dell’immediato passato. Fino a presentarsi al giudizio supremo della Bce con i bilanci in ordine, ma con l’industria a pezzi.
Tralascio casi specifici. Il dato di fatto è che, dal 2008 ad oggi, il sistema bancario italiano non è più stato in grado di svolgere il suo ruolo primario. Il sostegno all’accumulazione sociale di capitale, finanziario e umano.
Nè lo Stato, messo sotto torchio dai sempre più stringenti poteri e obbiettivi europei. Abbiamo avuto gli anni di Monti, poi di Letta e quindi di Renzi. Tasse e tagli, tagli e tasse.
Soprattutto nelle aree più critiche. Le università immiserite, la ricerca tagliata, gli investimenti sforbiciati.
Salvo però lo sperpero di 10 miliardi in un bonus elettorale di 80 euro supposto detonatore dei consumi, in realtà usato dalle formiche italiane per sanare debiti o mettere da parte qualche altra scorta precauzionale.
Supponiamo invece che quei 10 miliardi fossero andati a ciò che davvero manca. A un soggetto pubblico finalizzato alla creazione di impresa (o alla rivitalizzazione di impresa), capace di rischiare, capace di riempire buchi storici del sistema Italia.
Seguo le vicende del venture capital dal 1985. Dai primi esperimenti di Elserino Piol all’Olivetti. Ebbene, salvo la piccola parentesi “drogata” della bolla internet del 1998-2000 in Italia il capitale di rischio è sempre stato affare per pochi intimi privati in Italia.
Ok fino a che si viaggiava a qualche decina di business plan all’anno. Ma da qualche anno siamo a 3mila. Una intera generazione, con le spalle al muro, ci prova. Dall’altro lato pochissimi intelocutori, e tra i pochisssimi ci metto anche gli sperperi regionali su improbabili incubatori d’impresa, spesso deserti. Il capitale di rischio in Italia è un lavoro per, al massimo, una ventina di soggetti.
C’è il capitale umano per costrure uno strumento pubblico di autentica creazione d’impresa? Certo che c’è, ed è spesso fuggito all’estero. Ci sono le idee? Si. C’è la voglia? Certo.
Da anni si parla di un “fondo di fondi” pubblico in grado di sostenere il venture capital italiano. Dai tempi del ministro Stanca, e poi della legge sulle startup di Passera-Monti (che semplificò molte cose ma, guarda caso, lasciò sulla carta il suo articolo istititutivo del fondo di fondi).
E allora? Dove il sistema fallisce è necessario un intervento. Un rivitalizzatore dell’accumulazione d’impresa. Un soggetto in grado di attingere, e proficuamente, sia ai prestiti primari della Bce che a quei 4mila miliardi di risparmi mobiliari italiani e di trasformarli in investimenti in Italia. Attraendo investimenti e non torchiando i risparmiatori con altre tasse.
Oggi gli italiani finanziano spontaneamente Telethon. Che sostiene al ricerca. Domani potranno, con la giusta comunicazione (anche in rete) sostenere nuove imprese che tolgono il loro territorio dalla depressione. Magari rinunciando a un punto percentuale di rendimento sui titoli, ma in condizioni di sicurezza, e per obbiettivi trasparenti e puliti.
Un nuovo modo di fare banca, capace di fondere crowdfunding, impatto sociale, solidarietà, banca etica, tutela del risparmio, ruolo dello Stato.
Guardiamo alle imprese che falliscono. E agli operai e ai dipendenti che cercano di fare continuare, magari in forma cooperativa. Chi ha il coraggio di sostenerli, di assisterli, di finanziarli? Di trovare manager che li aiutino, e di comunicare al territorio la nuova scommessa?
Guardiamo a quegli staordinari acceleratori di disponibilità liquide che sono le monete complementari, come il Sardex. E’ possibile pensare a una rete italiana, regione per regione, di queste “stanze di compensazione” per forzare i vincoli del credito e ridare fiato alle imprese, piccole e grandi che siano?
E’ possibile pensare a un soggetto finanziario pubblico, capace di prendere a prestito alla Bce allo 0,5% per produrre bond a lungo termine per la ristrutturazione energetica dei condomini (coibenzazione) in modo da far guadagnare tutti: inquilini, imprese qualificate e la stessa banca pubblica? E’ possibile, non facile ma possibile.
E’ possibile pensare allo stesso soggetto pubblico che interviene sulle piccole e medie imprese a rischio chiusra e poi ne produce titoli cartolarizzati che vengono comprati dalla Bce, secondo il suo programma di sostegno all’economia europea, a prezzi di favore? E’ del tutto possibile.
Venture capital, rinascita delle imprese in crisi, green economy, monete complementari, sostegno ai makers. E poi, con il procedere delle attività, destinazione degli utili di questa “public company” al sostegno alla ricerca, agli incubatori (veri), al matrimonio tra innovazione e beni culturali.
Questa entità a mio avviso non deve avere nulla a che fare con l’altra banca pubblica, la Cdp. Quest’ultima si occupa di altre cose, con logiche diverse. Questa deve essere una banca di giovani, e per i giovani. Una public company senza politici di torno, o pezzi da novanta dell’establishment bancario.
Su queste basi la scommessa è più credibile. Una dotazione di fondi iniziale da parte del Tesoro e poi l’emissione di bond garantiti, come rendimento minimo, dallo Stato. E da qui la capacità di camminare sulle sue gambe, facendo rendere la rinascita italiana.
E’ solo un’idea abbozzata. Ma è comunque utile se vi ho regalato un attimo di speranza. A questo servono gli auguri.