L’Italia del presidente J.p Morgan

«All’inizio della crisi, si pensava che i problemi nazionali fossero di natura economica, ma si è poi capito che ci sono anche problemi di natura politica. Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, sorti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche non adatte al processo di integrazione economica, (…) e sono ancora determinati dalla reazione alla caduta delle dittature. Queste Costituzioni mostrano una forte influenza socialista, riflesso della forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Perciò questi sistemi politici periferici hanno, tipicamente, caratteristiche come: governi deboli rispetto ai parlamenti, stati centrali deboli rispetto alle regioni, tutela costituzionale del diritto al lavoro, consenso basato sul clientelismo politico, diritto di protestare contro ogni cambiamento. La crisi è la conseguenza di queste caratteristiche. (…) Ma qualcosa sta cambiando: test essenziale sarà l’Italia, dove il nuovo governo può chiaramente impegnarsi in importanti riforme politiche ».

Questa citazione, tratta da un report sull’area Euro della J.p. Morgan del 28 maggio scorso è ormai abbastanza nota in Italia. La prima a divulgarla fu Barbara Spinelli sulla Repubblica. Ma ieri, in Piazza del Popolo a Roma, di fronte a circa 40mila convenuti per la manifestazione in difesa della Costituzione, l’ha ripetuta a gran voce anche Salvatore Settis, l’archeologo insigne ed ex rettore della Scuola Normale di Pisa.

Settis ha efficacemente comparato il punto di vista sulla nostra Costituzione di questo colosso della finanza globale alla prolusione del disegno di legge costituzionale 813 presentato lo scorso giugno dal governo, a firma di Letta, Quagliariello e Franceschini e che in pratica prevede un percorso rapido di riforma costituzionale (18 mesi) ad opera di un comitato parlamentare bi-camerale con un iter molto diverso da quello previsto dall’articolo 138 della Costituzione, con le sue doppie votazioni distanziate di almeno tre mesi.

Settis ha comparato le tesi di J.P. Morgan con alcuni passi dell’introduzione al Ddl 813. Somiglianze evidenti. La Costituzione “socialista” di J.p. Morgan si specchia nell’ammissione, da parte dei ministri italiani, della sua stesura “nelle temperie della guerra fredda”.

Enrico Letta, lo sappiamo, è un aderente di primo piano della Trilateral. E viene invitato ali consessi riservati del Bildemberg. Conosce quindi bene le opinioni del grande capitale e della grande finanza, di quelli che potremmo definire come i “grandi creditori” del debito pubblico e dell’Italia.

Con il suo Ddl manifesta una grande, inusitata e un po’ sospetta fretta, nel cambiare la nostra Costituzione. Soprattutto, scrive, che la riforma va concentrata nel funzionamento parlamentare, e nei rapporti tra Parlamento e Governo.

Da 15 anni il sistema funziona solo a colpi di decreti d’urgenza. Il parlamento è diventato un’aula di ratifica e al massimo di emendamenti. E i parlamentari truppe disciplinate, selezionate dai partiti, con il Porcellum, e non dai cittadini. Chi ha fatto norme e disposizioni, per 15 anni filati, sono stati ministri e funzionari. E nemmeno tutti molto preparati e lungimiranti. Visione d’insieme (specie con Berlusconi)? Zero.

Tutto è stato sacrificato all’affanno dell’emergenza continua. La Costituzione materiale è già cambiata, e malamente, nel ventennio del declino.

Alla fine dei 18 mesi previsti dal ddl 813, con connessa riforma elettorale, è quindi quantomai probabile che il risultato sarà quindi un sistema istituzionale e politico italiano presidenzialista. E insieme, forse, l’abolizione di tutte quelle parti della Costituzione che impegnano lo Stato ai servizi di welfare e di tutela del lavoro.

In questo modo Letta (e Quagliariello) credo che contino di raggiungere un doppio obbiettivo. Presentarsi ai grandi “creditori” e ai grandi “investitori” con un sistema istituzionale più capace di stringere manovre impopolari (leggi tagli sul welfare per decreto centrale), licenziamenti, privatizzazioni. Forse anche alla greca.

Credo che la loro speranza sia che, con la nuova Costituzione presidenzialista, le J.p Morgan siano quindi di nuovo interessate a investire in Italia. E a indurre investimenti. Ma loro si muovono, di solito, solo se vedono profitti.  E dove potrebbero essere questi nuovi profitti in Italia? Forza lavoro a basso costo? Patrimonio culturale accessibile?  Anche noi ci porremo il problema se venderci o no il Partenone?

Secondo vantaggio. Una volta tolta di mezzo l’anomalia Berlusconi, avere di fronte uno scenario presidenziale stabile e stabilmente decisionista. Per lo stesso Letta oppure per Quagliariello. Rimettendo in gioco i due grandi partiti tradizionali. E emarginando l’ospite estraneo del Cinque Stelle. Oltre alla sinistra non allineata.

Ma a quale prezzo tutto ciò? Elevatissimo. L’Italia, in questo scenario, diverrebbe un paese del tutto subordinato al grande capitale globale. Senza più quelle istituzioni, in particolare di welfare, che l’hanno accompagnata per almeno due generazioni. Un paese mutilato. E forse persino da spolpare.

Sull’altare dei tassi di interesse pubblici  pagati al mercato finanziario internazionale, dobbiamo sacrificare quindi la sostanza della nostra Costituzione, del nostro ordinamento civile? Ha senso?

Non conviene invece seguire un percorso alternativo? Ovvero spingere, con tutte le nostre forze, sulla riduzione della spesa pubblica, del debito e sulla reintermediazione dello stesso debito sui cittadini italiani, anche con misure di prestito forzoso?

I giapponesi hanno un debito pubblico doppio del nostro. Risparmi analoghi (tre volte il debito) ma tutto il debito pubblico giapponese è in mano della famiglie giapponesi. Non risentono quindi di speculazioni o condizionamenti. E possono permettersi manovre reflattive persino spericolate.

Dobbiamo, certo, costruire uno stato meno costoso. Ridurre livelli politici e amministrativi inutili (e non solo le Provincie), snellire, mirare i servizi a chi ne ha necessità. Quindi una riforma costituzionale su questi temi ha perfettamente senso. Ma dobbiamo contrattare con l’area Euro (leggi Germania)  la reintermediazione del nostro debito.

Quindi, entro questi limiti, dobbiamo fare una meditata riforma Costituzionale.

Ma non per ubbidire a J.P Morgan.

 

 

 

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Vent’anni (anzi ventuno)

The founders of the Italian state one hundred and fifty-two years ago had fought and even died hoping to bring Italy back to a central position as a cultural and economic powerhouse within the Western world, as the one it occupied in the late Middle Ages and Renaissance. That project has now completely failed,

 

Voglio celebrare il mio personale anniversario, ancorchè sbilenco e approssimativo (ma più vero di tante minchiate correnti) dedicato all’Italia. All’Italia già patentemente fallita del 9 luglio 1992, quando Giuliano Amato, allora consigliori di Bettino Craxi (il principale distruttore dell’Italia), in una notte arraffò dai conti bancari degli italiani un’equa ma congrua tangente. Congrua abbastanza per mettere tranquilla Washington sulle sorti della Repubblica delle Banane creata, perlappunto, da Bettino-Bottino, divo Giulio Andreotti  nonchè il coniglio mannaro Forlani.

Voglio celebrare quella data, che diede al mondo la nozione di Italia fallita, perchè oggi, dopo 32mila aziende morte, l’8-10% del Pil distrutto, è di allora che parliamo, via mostruoso debito pubblico mai smaltito e anche accumulato. Perchè, grazie ai Berlusconi e soprattutto ai Tremonti, siamo peggio di allora.

Dopo Craxi dovevano lavorare per tirarcene fuori. Hanno fatto il contrario. E ora l’Italia sta morendo.

(questo articolo di Roberto Orsi,  della London School of Economics, pubblicato anche sul blog di Beppe Grillo, merita una lettura. E’ il più incisivo e dettagliato atto di accusa contro le politiche seguite negli ultimi venti anni, e le loro conseguenze)

Voglio celebrarla perchè, di questo passo, il 10 luglio 2014 mi aspetto (spero) una sorta di secondo risorgimento. Per vent’anni infatti abbiamo avuto un pregiudicato e pervertito al potere a cui, e ai suoi, poco o nulla fregava del paese e di noi.

Invece della cura al fallimento del 92 abbiamo avuto il contrario. E oggi, risultato dei 21 anni, siamo al collasso.

Il punto è: chi fa gli interessi dell’Italia (misurabili non a parole ma in risultati)? Un altro clown?

Chi fa gli interessi nazionali, oggi? Siamo diventati un paese di vecchi, di depressi, di sfruttati, di cocainomani, di emigrati.

Siamo diventati un paese di schiavi dell’Europa. Chi o cosa ci potrà riscattare da questa fine annunciata?

Non loro.

Solo un secondo Risorgimento italiano.

 

 

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Dopo Berlusconi

Credo che l’Italia si attenda un partito di destra decente. Il resto sono chiacchiere.

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L’Italia che viene prima di Berlusconi

Manifestazione a Casal di Principe, epicentro della terra dei fuochi, la più spaventosa area di rifiuti tossici creata dalla criminalità organizzata nei due decenni di “distrazione” da parte dell’ineffabile statista di Arcore.

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Arriva il supplemento di pena

Il governo Letta sta disintegrandosi.  Come era facilmente prevedibile, siamo al supplemento di pena per l’Italia.

Dopo la crisi (2011-2012) “Ruby-Noemi” pagheremo anche la “decadenza” (2013-….).

Si balla di nuovo. I più poveri in primis.

La colpa è ovviamente della magistratura.

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E democracy, la rivolta (software) di una generazione

Per chi, come me, ha vissuto da dentro e partecipato, dalla seconda metà degli anni Novanta, agli esperimenti di democrazia elettronica il seminario, I codici (software) della democrazia,  (organizzato dal Dipartimento di Informatica
dell’Università di Milano, in collaborazione con Fondazione RCM e ICONA) , è stata una sostanziale boccata di ossigeno.

Il motivo è semplice. Fino al 2009 questo mondo dell’e-democracy  era buono per qualche titolo di giornale. In realtà, era relegato nella marginalità da un sistema e da una classe politica che ne diffidava, se non l’aborriva. Oggi invece sta diventando un terreno di diffusione, di contagio tra esperienze. E di opportunità di prima grandezza.

Per chi se n’è occupato, volontariamente e con tanto impegno e speranze, la prima fase è stata una lunga marcia nel deserto. Ma poi, dall’esplosione della crisi capitalistica in Europa sono avvenuti due eventi: la formazione del partito pirata (nato in Svezia e poi radicatosi soprattutto in Germania)  e in Italia la crescita del movimento Cinque stelle.

Come se la crisi che ha investito frontalmente una generazione (interconnessa) l’avesse costretta a sviluppare una strategia positiva con gli strumenti storicamente disponibili.

Ambedue questi movimenti,  infatti,  pongono al centro della propria organizzazione (e visione) l’e-democracy. Il primo – ha spiegato Carlo Von Lynx – struttura il suo essere partito come assemblea permanente deliberativa tramite la piattaforma Liquid Feedback, un sotware sviluppato dai pirati stessi (movimento nato originariamente sulle libertà di rete, e ad alta intensità di informatici e programmatori) che consente di proporre idee, discuterle, integrarle e infine selezionarle con un rigoroso processo di votazione. Una piattaforma deliberativa che oggi coinvolge circa 4mila partecipanti in Germania, e si è estesa in Austria e anche in Italia (ovviamente qui con numeri più piccoli, non oltre le 400 persone iscritte al partito pirata italiano).

L’obbiettivo dei pirati – dice Marco Ciurcina -  è di far funzionare il loro partito senza la necessità di un “gruppo dirigente”, e con il minimo di autonomia dei rappresentanti eletti, che invece devono assumersi, per statuto, il non facile compito di portavoce “fedeli” delle deliberazioni e dei programmi sviluppati in assemblea.

Utopia? Mica tanto, se si tiene conto che alle scorse elezioni a Berlino i pirati si sono attestati all’8%,  e sono accreditati ora dai sondaggi per il Bundestag al 2-4%. Secondo non poche analisi il loro successo (almeno finora) è stato dovuto alla forza attrattiva della democrazia liquida e la conseguente qualità dei programmi (soprattutto nel caso berlinese) sviluppati e messi in campo.

In Italia l’altro pilastro dell’e-democracy è il Movimento Cinque Stelle. Il punto di riferimento è la democrazia diretta, l’orizzontalità, la rappersentanza parlamentare o nelle istituzioni strettamente vincolata (come per i pirati) alle deliberazioni della rete degli iscritti.

E i due movimenti in qualche misura hanno cominciato a interpenetrarsi. Soprattutto attraverso la piattaforma Liquid Feedback, che viene sperimentata, spiega Andrea Ravasio, dalle comunità grilline a Bergamo, poi in Lombardia, Sicilia, Basilicata. Un’adozione dal basso, a dimensioni locali (e in alcuni casi appena partita) ma che rende molto più efficace il lavoro politico rispetto ai soli, e spesso caotici, gruppi di discussione.

C’è chi poi, dentro il movimento Cinque Stelle, sta puntando all’obbiettivo grosso. Alla realizzazione di un’intera assemblea parlamentare su una versione ampiamente modificata di Liquid Feedback. Il gruppo di programmatori grillini del Parlamento Elettronico , coordinati da Emanuele Sabetta, hanno davvero fatto un lavoro di rilievo. Costruendo un’interfaccia gradevole su un software da questo punto di vista iper-spartano. Creando aiuti alla navigazione in processi deliberativi non sempre facili. Inserendo nel processo di formazione delle proposte di legge anche l’intervento di commissioni di esperti (come nel Parlamento tradizionale) per il controllo di costituzionalità, giuridico, tecnico e economico delle proposte.

Infine, fedeli anche loro all’ideale della democrazia diretta, hanno abolito una delle funzioni più discusse di Liquid Feedback. La delega. Ovvero la possibilità di delegare un’altra persona nelle deliberazioni. Una funzione, sempre revocabile, ma che in Germania, a tre anni di funzionamento della comunità pirata, sta acquisendo peso (non tutti gli attivisti possono dedicare ore ogni giorno alla partecipazione deliberativa).

Il gruppo laziale del 5stelle non la pensa così. Fedele al principio “uno vale uno”.

Questo fermento, in un movimento che oggi rappresenta quasi un terzo degli italiani, ha di fatto esercitato una forte pressione anche sui “concorrenti” per adeguarsi, o quantomeno rodare, il nuovo paradigma partecipativo. Di qui, nel gennaio scorso, la partenza a razzo di una piattaforma “estesa” Liquid Feedback per la candidatura di Umberto Ambrosoli alla guida della Regione Lombardia. In poco più di un mese, grazie soprattutto al lavoro della Fondazione Rcm dell’Università di Milano, il server, secondo il suo direttore Mario Sartori,  ha raccolto, selezionato e votato circa 300 proposte programmatiche, con circa mille iscritti. E queste proposte, riportate su apposite aree esterne (della piattaforma complementare OpenDCN) hanno ricevuto in gran parte l’adesione dello stesso Ambrosoli.

Peccato che la sua mancata elezione oggi abbia un po’ oscurato la qualità politica di quel programma per la prima volta nato dal basso dai cittadini lombardi.

Subito dopo però è stata la volta di Laura Puppato, e di altri parlamentari “illuminati” del Pd (e altre forze del centrosinistra) nell’avviare (sempre con Fondazione Rcm) ,Tu Parlamento, un server deliberativo anch’esso basato su Liquid Feedback con aree di comunicazione e discussione integrate da OpenDcn (la base, tanto per spiegarci, di PartecipaMi).

Questo sito è diviso in due parti. La prima è l’area libera per i cittadini delle proposte, degli emendamenti, delle votazioni finali. La seconda è invece a disposizione dei parlamentari promotori (14) che vogliono avviare dei percorsi consultivi aperti su temi che stanno seguendo o stanno loro a cuore.  Ad oggi 4 parlamentari hanno aperto dei temi. Siamo davvero ancora agli inizi.

Ma ciò che si è mosso dal 2009 intorno a Liquid Feedback ha influenzato anche l’altra maggiore iniziativa spontanea presentata nel workshop di Milano. Ovvero Airesis, nata da un gruppo spontaneo di sviluppatori (team leader Alessandro Rodi) che hanno creato una piattaforma con le capacità immediate di discussione di Facebook (persino riprendendone lo stile) ma con, dentro, anche il motore deliberativo di voto (palese e segreto). Il punto di forza di Airesis sta comunque nella sua interfaccia gradevole e facilità d’uso. Al punto che oggi molti partecipanti ai Meetup del M5s stanno migrando su questa piattaforma, dalla precedente, ormai decisamente invecchiata.

Un esempio. Airesis è oggi un piattaforma in evoluzione e si prefigge l’aggiunta di nuovi strumenti e moduli. Tra cui quello, oggi indispsanbile, per generare petizioni sottoscrivibili dalla rete. Un modulo appena completato anche da OpenDcn e messo in open source (come è del resto anche Airesis). Sarà questo un caso di scambio di funzionalità e codice tra le varie piattaforme emergenti italiane? A sua volta il gran lavoro fatto dal gruppo degli sviluppatori laziali del 5 stelle sull’interfaccia utente di Liquid Feedback potrebbe essere incoporato anche in altre versioni e progetti. Si va quindi verso una rete interconnessa – nella proposta formulata l’ultimo giorno da Fiorella De Cindio fondatrice del Laboratorio di Informatica Civica dell’Università di Milano –   nello sviluppo di software di e-democracy?

Anche e soprattutto per l’adozione di autentiche innovazioni radicali. Qui è d’obbligo citare il lavoro di un  matematico, Pietro Speroni Di Fenizio , che ha sviluppato un sistema di voto, Vilfredo goes to Athens che, invece di far vincere una sola proposta su altre concorrenti (come nel voto classico o nell’algoritmo di Schulze usato in Liquid Feedback) genera un processo recursivo in cui le proposte via via dominanti vengono selezionate e i proponenti sono forzati a scegliere tra una rosa dominante sempre più ristretta (fronte di Pareto), ad aggiustare le proposte, convergere, e alla fine a raggiungere l’unanimità sulla soluzione finale.

E’ quanto normalmente avviene in molte situazioni diplomatiche (stesura di trattati, accordi…) ma Vilfredo è una sorta di “tutor matematicamente guidato” che consente a tutti, in gruppi di una dozzina di persone, di sviluppare proposte condivise. L’algoritmo infatti non si presta (per ora) a grandi numeri di partecipanti. Ma è in fase di avvio, con la fondazione Href, una sua implementazione per aiutare il lavoro delle commissioni parlamentari, tipici consessi deliberativi con meno di venti partecipanti.

Non solo, “Vilfredo” potrebbe funzionare egregiamente nella fase di formazione delle proposte su Liquid Feedback, soprattutto quando più idee concorrono sullo stesso tema e possono essere integrabili. Un modulo “Vilfredo” in questa piattaforma è quindi pienamente ipotizzabile.

Lo scenario che ho tentato di descrivere fin qui non è tanto una disamina tecnica delle piattaforme presentate nel seminario quando una descrizione di larga massima di una sinergia in atto (nemmeno tanto potenziale come si vede) tra un’offerta di una tecnologia (tutta open source, e vale per ogni piattaforma) e una domanda, nativa o indotta, da parte di una larga parte della giovane generazione italiana.

In questo ha un ruolo trainante il “popolo del 5 stelle” , con il suo ideale di un corretto uso democratico della rete come cura e antidoto dei mali della Repubblica.

Mie personali considerazioni sul futuro dell’e-democracy

Essendo economista di formazione, mi sono chiesto: queste piattaforme nascenti di e-democracy hanno soltanto un significato politico, ideale, o possono avere anche un fondamento e ritorno economico?

Il mio preferito, sotto questo aspetto, è infatti un progetto presentato alla fine del seminario: una piattaforma per i bilanci partecipati. Bipart. Un ambiente che aiuta nel processo, ma non si sostituisce alla fondamentale attività “fisica” (assemblee, votazioni nei Comuni) tipiche del bilancio partecipativo.

Qui c’è un giacimento di valore potenziale molto elevato. Lo dico a ragion veduta.  Sulle cifre dei ricorrenti rapporti della Corte dei conti sulla corruzione in Italia, stimata in circa 60 miliardi annui, e in buona parte concentrata nelle opere pubbliche (anche incompiute) nelle consulenze, nella sanità.

L’adozione diffusa di bilanci partecipativi su progetti di opere pubbliche nei comuni italiani potrebbe quindi fruttare, letteralmente, miliardi di risparmi di danaro pubblico in termini di minore corruzione, attivazione e controllo continuo da parte dei cittadini.

Potrebbe generare la base economica per un ridisegno dell’amministrazione e  per molte altri programi, dal welfare al sostegno di nuove imprese.  Compreso un netto innalzamento nella trasparenza e legalità pubblica. Ma, del resto, questo è l’obbiettivo di tutta l’e-democracy.

Il bilancio partecipativo è quindi un gioco win-win che andarebbe diffuso (per esempio con apposite leggi regionali di incentivo ai comuni, come in Toscana e forse prossimamente in Sardegna).

L’obbiettivo vero è quello di formare una generazione di italiani in grado non solo di rispettare le leggi ma di contribuire attivamente alle scelte, e al loro controllo di attuazione, secondo criteri di economicità normali.

Già questo sarebbe un sostanziale passo avanti. Dimostrare che la partecipazione e l’e democracy serve a ridurre e evitarci quel quarto di Pil che finisce in corruzione, criminalità, evasione. E insieme genera decisioni politiche più equilibrate. Senza rinunciare alla partecipazione deliberativa e agli ideali di una generazione.

In tal modo hanno ragione pirati e grillini: la rete ben organizzata è davvero la cura e l’antidoto al degrado attuale della Repubblica e dell’Italia.

Il problema però, è indirizzare forse e risorse non sull’e-democracy generica, ma su azioni mirate (come i bilanci partecipativi) a forte carica trasformativa. E su questa trasformazione reale, avvertita dai cittadini (meno tasse, meno corruzione, meno burocrazia incomprensibile finalizzata alla corruzione….) costruire il cambiamento della Repubblica.

L’e-democracy e la partecipazione attiva non potrà limitarsi alla (pure necessaria) fase dell’ ideazione e della proposta all’interno di movimenti e partiti. Ma deve estendersi a quella del controllo dell’esecuzione e della modifica e variante dell’esecuzione. Fino al risultato finale. Altrimenti si rischi di assomigliare agli illuministi napoletani del 700, con i loro grandi proclami ma con le forze borboniche e sanfediste alle porte.

Costruiamo quindi i prossimi risultati della partecipazione attiva.  C’è già qualcuno che lo sta facendo in Italia. Uno per tutti: la rete Libera di Don Ciotti.

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Supplemento di pena (per l’Italia)?

La cosa che più mi fa arrabbiare del cicaleccio italiota in corso è la mancanza, quasi assoluta, di una ricostruzione storica di quello che abbiamo dovuto subire dal 2009 ad oggi.

In un paese normale, con un regime etico normale per gli uomini politici, Berlusconi avrebbe dovuto dimettersi già quell’anno, nel 2009, dopo lo scandalo Noemi e poi delle altre call girls pugliesi. Invece articoli, foto discinte e titoli percorsero i media internazionali associate alla sua faccia irridente.

500 mila ragazzi, autoconvocati su internet, scesero invece in piazza con bandiere viola per il No Berlusconi Day ma poi tutto finì lì. L’opposizione, alla D’Alema e Bersani, non salì nemmeno sui palchi.

Lui restava graniticamente sulla poltrona, mentre all’estero coniavano salaci barzellette su di lui e sull’Italia. E non furono solo barzellette.

Non accennò nemmeno di striscio all’ipotesi di dimissioni. Ma l’anno dopo fu la volta della seconda ondata: Ruby, le Olgettine, la Minetti. E ancora big bang sui media e sulla rete. Tanto per conferma globale.

Nel 2011 l’Italia e il governo italiano erano pertanto totalmente screditati. Berlusconi si ostinava nella poltrona. E intrallazzava con Putin. Nessun altro governante, europeo o occidentale, voleva riceverlo. Invece alla prima occasione, all’estero (e soprattutto in Europa), erano pronti a presentargli il conto.

Per questo la speculazione finanziaria, appena potè, colpì più duramente che potè l’Italia, economicamente anche solida, ma eticamente e politicamente screditata. Nessuna pietà per quella gente indebitata al 120% del Pil che tollerava, o persino sosteneva, il Cavaliere.

L’esplosione avvenne nel settembre 2011, sull’onda della crisi greca e dei Pigs. L’Italia in poche settimane passò da spettatrice a epicentro degli attacchi speculativi. Più feroci che sulla Spagna. E si parlò anche di grandi banche tedesche e inglesi capofila. E fu per questo che la Merkel (e altri) riuscirono a ottenere dall’Europa l’imposizione all’Italia di una cura da cavallo di austerity. Un governo screditato ovunque, un leader screditato, meritavano infatti una mazzata storica. In buona sostanza non necessaria. Ma utile a cacciare lui, Silvio, toglierselo di torno dai vertici europei. A un prezzo anche astronomico per gli italiani. Ma sufficientemente alto per essere efficace. E assicurare la fine di un regime in Italia (non solo di centro-destra) che il popolo italiano non riusciva a scalfire.

Il prezzo:  l’anticipo di un anno nel pareggio di bilancio pubblico, al 2103. Una batosta che stiamo subendo anche ora. Una mazzata inferta, così, nemmeno alla disastrata Spagna.

Se la combiniamo alla recessione mondiale, alla perdita di competitività sui paesi emergenti, al calo di domanda interna, la drastica manovra sui conti pubblici (compresi non pagamenti alle imprese e strangolamento dei comuni) ci dà la misura dei fattori di spinta sinergici (in segno meno) su un paese che dal 2011 ad oggi è entrato in avvitamento.

L’Italia non meritava, dati i suoi fondamentali nel 2011, un simile colpo. Ma lo meritava Silvio, perchè mollasse. E ci riuscirono, a disarcionarlo, ottenendo in cambio Mario Monti. Finalmente Berlusconi fuori. E al suo posto un amico della tecnocrazia europea. Che mantenne puntualmente l’obbligo a eseguire l’inutile mazzata. Anche lui senza un plissè. Un esecutore, che manco aveva capito le ragioni di quel prezzo esorbitante da pagare. E che si barricò, pur avendo tranquillizzato i mercati, con quell’imprescindibile impegno preso poche settimane prima del suo insediamento.

Forse è questo il motivo per cui gli italiani non amano Monti. Perchè un economista, specie se decantato, dovrebbe essere in grado di prevedere le conseguenze e gli scenari di una politica economica.

Il prezzo quindi oggi lo sta pagando non Silvio ma l’Italia. Con la più tremenda recessione-depressione dal dopoguerra.

Stiamo pagando quindi anche la nostra incapacità a sceglierci i governanti e a mandarli via. Stiamo pagando la vigliaccheria di massa del 2009. Stiamo pagando il nostro lassismo in fatto di etica pubblica e privata, che invece altrove conta. Stiamo pagando anche il consociativismo e i compromessi del Pd. I suoi patti della crostata, di infelice memoria.

Ma soprattutto stiamo pagando un gesto elementare che andava fatto e non fu fatto. Da parte di un vecchio politico incontinente, colto con le ragazzine, che non si ritira.  E invece sfida il mondo con protervia.

Oggi probabilmente avremo un’altra crisi politica. Un governo cadrà malamente perchè costui non accetta il principio elementare di ritrarsi da cariche pubbliche in quanto riconosciuto, in via definitiva, colpevole di reato. Il governo cadrà e avremo di nuovo una crisi finanziaria. In condizioni ancora peggiori di quelle del 2011.

Dopo la grande stangata del 2011 (propongo di chiamare l’attuale crisi economica italiana”Noemi-Ruby”,  ora c’è anche il supplemento di pena per l’Italia. Ma a lui, ovviamente, di noi non gliene potrebbe fregar de meno.

Avremo una crisi economica aggiuntiva, un’altra mazzata? E questa nuova ondata speculativa la chiameremo  “decadenza”?

Mò basta.

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La tenaglia

A cinquanta giorni dall’ultimo post la situazione italiana mi pare identica. Da un lato questo povero paese resta incatenato alla vicenda personale di Silvio Berlusconi. Che sta tentando in ogni modo di annullare o ritardare la sua obbligatoria uscita da ruoli politici pubblici.

Esercita pressioni di ogni tipo sul Pd, facendo conto su non pochi compiacenti, e soprattutto sulla forza dei numeri parlamentari, ovvero sulla inesistenza di una maggioranza di governo alternativa.

In presenza di una crisi finanziaria sempre pronta a scattare in caso di elezioni anticipate “emotive”.

Il termine, l’altro termine, dell’equazione maledetta, che ci sta trascinado a fondo, ha due protagonisti: Grillo e Casaleggio. Sipragli a una collaborazione di governo con il Pd? Nessuno. Possibili trattative anche su riforme molto radicali? Niet. Solo un movimento oppositivo di duri e puri che, mese dopo mese, di sta rivelando sostanzialmente inutile.

In questo Grillo e Casaleggio stanno facendo un enorme favore a Berlusconi. E un pessimo servizio anche a gran parte dei propri elettori, che hanno votato cinque stelle perchè molto, o almeno qualcosa facesse.

Niente, siamo nella tenaglia. Che potrà essere spezzata solo da un opportuno, e a tempo debito, ricorso alle urne. Ma prima è essenziale che la legge sia rispettata. E Berlusconi cessi di essere un parlamentare.

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L’angolo di Berlusconi

Dopo anni e anni di giochetti giudiziari, ora Silvio Berlusconi pare proprio in un angolo. L’interdizione ai pubblici uffici verrà con ogni probabilità confermata tra venti giorni dalla Cassazione. E diverrà pienamente esecutiva.

Certo. Potrà far saltare il governo dopo quella sentenza. Ma a che pro? Sarebbero disastrose elezioni anticipate da tutti vissute come “ad personam” (ancora una volta), regalerebbe in pratica un Italia allo stremo al Pd e al 5stelle (anche perchè il Pdl ormai non ha piu’ un programma, dopo il veto dell’Fmi e di Standard & Poors sulla demagogia fiscale in tema Imu).

E’ proprio all’angolo, il povero Silvio. “Addomesticarsi” i giudici della Cassazione non è pensabile. Far saltare il sistema anche (e non ne avrebbe più la forza). Gli conviene solo una mossa. Andarsene dall’Italia,  da grande vittima, espatriare. E da lontano tentare di organizzare una riscossa, mediatica e politica. A Craxi non riuscì, a lui forse….chissà.

(ricordiamoci che è comunque l’uomo più ricco d’Italia).

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Forse è utile ricordare qualche considerazione elementare.

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L’uscita di scena di Berlusconi, di questo ammorbante personaggio che ha guidato la degenerazione e la stagnazione dell’Italia dal 1994, sarà (e dovrà essere) un evento epocale. Di un ordine di grandezza più incisivo e positivo di quanto fu l’esilio di Craxi nel 92.

Lo ha capito persino Grillo, che sta cambiando linea.

Putroppo Craxi fuori gioco creò un vuoto raccolto solo dal vecchio Pci-Pds, un partito a sua volta bolso, ancora ideologico e di appartenenze di affari e conservatrici. Non funzionò. Ci volle l’Ulivo di Prodì, dopo il primo sconclusionato governo Berlusconi, per capire la possibile risposta.

Oggi è meglio prepararsi in anticipo, con le lezioni del passato bene in mente.

Primo: cacciare D’Alema e tutta la sua congrega. Perchè non facciano di nuovo il giochetto del 1998, quando accoltellarono Prodi, per prendersi il comando.

Secondo: costruire un partito aperto, e possibilmente internamente contendibile. Un partito attrattivo, in gran misura secondo le idee di Barca, con strumenti moderni di intelligenza collettiva di seconda generazione. Un partito per cui valga la pena esserci, senza illusioni di carriera o di collusione con lo Stato. Un partito aperto di idee e di politica.

Terzo: favorire a destra la rinascita di forze politiche interessanti e serie. Come “fare-fermare il declino” con i loro programmi economici fondati non sulla demagogia ma su precise necessità. E non l’inutile (e poco trasparente, vedi ciellini e Udc) Scelta civica di Mario Monti.

Quarto: dare battaglia aperta alle congreghe, come Comunione e Liberazione, cresciute parassitariamente all’ombra di Berlusconi e ora transitate con Monti.

Quinto: dare battaglia alle parallele congreghe interne al Pd. In primis le Cooperative. Esternalizzarle fuori dal partito, nel loro spazio naturale di mercato, alla parti con quelle di Cl e altro.

Sono solo alcuni punti di una risorgenza forte e necessaria. Altri possono essere aggiunti.

La vera ripresa italiana.

All’appuntamento del dopo Berlusconi stavolta è necessario un Ulivo al quadrato. E senza killer nascosti e scheletri interni.

 

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La crisi e la seconda intelligenza collettiva

Tutti lo sanno, ma nessuno nelle alte sfere vuole ammetterlo pubblicamente. Il capitalismo, e in particolare il capitalismo libero globale nato negli anni 90, è in crisi, Nessuno sa e riesce a prevedere quanto profonda sarà questa crisi, e se reversibile o meno.

Di fatto, con lo scoppio della prima bolla (internet e tlc) del 2000 il sistema è divenuto instabile. Gli Usa si sono deindustrializzati (a favore della meno cara Asia) e l’Europa ha cominciato a ridurre e perdere il suo famoso sistema di protezione sociale  e di welfare. Il ceto medio deindustrializzato Usa si è buttato sulla speculazione immobiliare di massa, Bush ha tentato di accaparrarsi il petrolio irakeno, e nel 2008 è esplosa la seconda bolla immobiliare-finanziaria, che ha coinvolto anche molte banche  europee.

La crescita industriale asiatica ha cominciato a mordere anche l’Europa, amplificando la crisi nei singoli paesi (Italia in primis). Ma poi anche con un feedback globale, e sugli stessi produttori asiatici che oggi vedono uno dei principali mercati mondiali rarefarsi.

Nel frattempo la stabilità finanziaria Usa, grazie allo storico ruolo “imperiale” del dollaro, è stata mantenuta tramite una terza bolla. Quella degli enormi finanziamenti che la Fed ha nei fatti canalizzato su Wall Street. Ufficialmente per indurre e sostenere la ripresa Usa, nei fatti per mantenere in piedi lo strategico complesso bancario-finanziario statunitense.

Oggi tutti scrutano, settimana dopo settimana i dati macro americani. Forse la ripresa finalmente c’è. Forse no.

In realtà un’era d’oro si sta chiudendo. La Cina, sempre più autocentrata, non è più un affare per i capitali occidentali, e soffre di una crescente crisi bancaria interna (banche di partito, decotte). L’India è in frenata rapida, come se avesse toccato il tetto saturando la sua esportazione di ingegneria software senza riuscire a inserirsi nell’industria hard globale.

Da soli questi due giganti danno il tono, nel bene o nel male, della globalizzazione.

Se quindi guardiamo con attenzione a questa catena di eventi possiamo capire che questi sono i grandi, enormi sbandamenti a cui è stato sottoposto (e viene sottoposto) il sistema dei popoli in nome della globalizzazione, ovvero dell’allargamento rapido del capitalismo oltre ogni limite e confine.

Finanza senza briglie, industria in migrazione. Stati in  fase di taglio e di ritirata. Tutto in presenza di  reti elettroniche globali. E quindi succede che, e da vari anni ormai, anche le rivolte alla crisi presentano le stesse caratteristiche.

Contemporaneamente oggi, sono giovani egiziani, brasiliani, turchi a “imbracciare” lo smartphone. Organizzandosi su Facebook e postando foto delle brutalità subite.Ieri fu la primavera araba, poi Occupy Wall Street, gli emarginati in Svezia, i giovani iraniani….

La globalizzazione, nella sua forma tecnologica, rende di un ordine di grandezza più facile insorgere e propagare l’insorgenza. Soprattutto se, sotto, vi sono generazioni di giovani senza futuro, pronti a scattare anche per un parco cittadino violentato.

Questi sono i risultati di una globalizzazione economica velocissima (in meno di dieci anni ha cambiato la faccia del pianeta) totalmente asimmetrica rispetto a una pari globalizzazione politica. Di fatto immobile.

Per esempio. Alla fine della seconda guerra mondiale Keynes propose un banca mondiale capace di emettere moneta di riserva globale (il Bancor). E quindi di coordinare tutte le banche centrali del pianeta. Gli americani risposero ovviamente di no, a favore del loro dollaro imperiale.

Keynes sognava il governo mondiale dell’economia e della ricostruzione del mondo. Ebbe in cambio l’Fmi, un ibrido controllato dai grandi stati (Usa in testa).

Oggi una banca centrale mondiale è con assoluta evidenza necessaria (di fatto le grandi banche centrali mondiali cercano di coordinarsi in un network che in qualche modo l’approssima, quando arrivano le tempeste). E così un sistema per controllare  e limitare alcuni movimenti di capitale (in particolare l’abnorme massa di derivati, ma anche i paradisi fiscali, ancora a piede libero).

Manca però il Bancor. Ovvero la moneta di riserva e la politica monetaria coordinata su tutto lo spazio globale.

E così un centro di guida delle politiche economiche che sia in grado di usare questa moneta dell’umanità. In grado di indurre investimenti di riequilibrio nei paesi “deboli” , dall’Egitto all’Italia, alla Nigeria al Brasile.

Il tutto può forse avvenire anche per coordinamento degli stati esistenti? Questo processo si sta rivelando inaccettabilmente lento. l’Fmi, per esempio, è solo un’ambulanza (costosa) per malati quasi terminali.

Se chiediamo a un giovane egiziano, italiano, spagnolo che vive sui social network che ne pensa di un governo globale, per lui questo linguaggio è immediatamente comprensibile, persino scontato.  Un governo democratico globale, in un’era in cui si lavora e si vive in un ambiente multirazziale, è il riequilibratore simmetrico all’instabilità del sistema.

Se poi questo si combina a una forma di democrazia più avanzata dal basso ecco che comincia a profilarsi un futuro. Per democrazia più avanzata intendo dire: intelligenza collettiva di seconda generazione.

Mi spiego. Per anni su internet (dai primi anni 90) abbiamo avuto (e vissuto) forme di communità di discussione, di scambio reciproco, di informazione. Queste communities hanno però sempre avuto una limitazione di fondo. Chiunque poteva parlare, parlare, parlare. Ma era difficilissismo trovare una sintesi. E una deliberazione operativa.

A meno di non affidarsi a leader mediatici (competenti e ben costruiti, certo) come Beppe Grillo. Al massimo lo si poteva  e si può solo commentare sul suo blog.

Oggi però sono disponibili (e già in uso in Italia) delle piattaforme deliberative evolute. In cui l’intelligenza collettiva “grezza” viene auto-filtrata e raffinata, da un processo di emendamenti, discussioni, adesioni e infine votazioni tra i partecipanti alla comunità stessa.

L’intelligenza collettiva di seconda generazione che ne scaturisce è di un ordine di grandezza superiore per qualità alla prima. Focalizzata, precisa, concreta e comunicabile. Non a caso il partito pirata tedesco ha stupito, con il suo uso massiccio di Liquid Feedback per la qualità dei suoi programmi politici.

Liquid Feedback è, nè più ne meno,  un “Parlamento” in software e in rete. Con le sue regole rigorose ma anche con la sua accessibilità aperta. E con le sue deliberazioni finali ponderate.

Credo quindi che una democrazia partecipata efficace, capace di usare appieno di questo potente strumento, associata a una banca centrale mondiale e da un ministero dell’economia possano formare il tris d’assi necessario per superare questa fase caotica e instabile. E di dare una prospettiva a una generazione.

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