L’Italia del presidente J.p Morgan

«All’inizio della crisi, si pensava che i problemi nazionali fossero di natura economica, ma si è poi capito che ci sono anche problemi di natura politica. Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, sorti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche non adatte al processo di integrazione economica, (…) e sono ancora determinati dalla reazione alla caduta delle dittature. Queste Costituzioni mostrano una forte influenza socialista, riflesso della forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Perciò questi sistemi politici periferici hanno, tipicamente, caratteristiche come: governi deboli rispetto ai parlamenti, stati centrali deboli rispetto alle regioni, tutela costituzionale del diritto al lavoro, consenso basato sul clientelismo politico, diritto di protestare contro ogni cambiamento. La crisi è la conseguenza di queste caratteristiche. (…) Ma qualcosa sta cambiando: test essenziale sarà l’Italia, dove il nuovo governo può chiaramente impegnarsi in importanti riforme politiche ».

Questa citazione, tratta da un report sull’area Euro della J.p. Morgan del 28 maggio scorso è ormai abbastanza nota in Italia. La prima a divulgarla fu Barbara Spinelli sulla Repubblica. Ma ieri, in Piazza del Popolo a Roma, di fronte a circa 40mila convenuti per la manifestazione in difesa della Costituzione, l’ha ripetuta a gran voce anche Salvatore Settis, l’archeologo insigne ed ex rettore della Scuola Normale di Pisa.

Settis ha efficacemente comparato il punto di vista sulla nostra Costituzione di questo colosso della finanza globale alla prolusione del disegno di legge costituzionale 813 presentato lo scorso giugno dal governo, a firma di Letta, Quagliariello e Franceschini e che in pratica prevede un percorso rapido di riforma costituzionale (18 mesi) ad opera di un comitato parlamentare bi-camerale con un iter molto diverso da quello previsto dall’articolo 138 della Costituzione, con le sue doppie votazioni distanziate di almeno tre mesi.

Settis ha comparato le tesi di J.P. Morgan con alcuni passi dell’introduzione al Ddl 813. Somiglianze evidenti. La Costituzione “socialista” di J.p. Morgan si specchia nell’ammissione, da parte dei ministri italiani, della sua stesura “nelle temperie della guerra fredda”.

Enrico Letta, lo sappiamo, è un aderente di primo piano della Trilateral. E viene invitato ali consessi riservati del Bildemberg. Conosce quindi bene le opinioni del grande capitale e della grande finanza, di quelli che potremmo definire come i “grandi creditori” del debito pubblico e dell’Italia.

Con il suo Ddl manifesta una grande, inusitata e un po’ sospetta fretta, nel cambiare la nostra Costituzione. Soprattutto, scrive, che la riforma va concentrata nel funzionamento parlamentare, e nei rapporti tra Parlamento e Governo.

Da 15 anni il sistema funziona solo a colpi di decreti d’urgenza. Il parlamento è diventato un’aula di ratifica e al massimo di emendamenti. E i parlamentari truppe disciplinate, selezionate dai partiti, con il Porcellum, e non dai cittadini. Chi ha fatto norme e disposizioni, per 15 anni filati, sono stati ministri e funzionari. E nemmeno tutti molto preparati e lungimiranti. Visione d’insieme (specie con Berlusconi)? Zero.

Tutto è stato sacrificato all’affanno dell’emergenza continua. La Costituzione materiale è già cambiata, e malamente, nel ventennio del declino.

Alla fine dei 18 mesi previsti dal ddl 813, con connessa riforma elettorale, è quindi quantomai probabile che il risultato sarà quindi un sistema istituzionale e politico italiano presidenzialista. E insieme, forse, l’abolizione di tutte quelle parti della Costituzione che impegnano lo Stato ai servizi di welfare e di tutela del lavoro.

In questo modo Letta (e Quagliariello) credo che contino di raggiungere un doppio obbiettivo. Presentarsi ai grandi “creditori” e ai grandi “investitori” con un sistema istituzionale più capace di stringere manovre impopolari (leggi tagli sul welfare per decreto centrale), licenziamenti, privatizzazioni. Forse anche alla greca.

Credo che la loro speranza sia che, con la nuova Costituzione presidenzialista, le J.p Morgan siano quindi di nuovo interessate a investire in Italia. E a indurre investimenti. Ma loro si muovono, di solito, solo se vedono profitti.  E dove potrebbero essere questi nuovi profitti in Italia? Forza lavoro a basso costo? Patrimonio culturale accessibile?  Anche noi ci porremo il problema se venderci o no il Partenone?

Secondo vantaggio. Una volta tolta di mezzo l’anomalia Berlusconi, avere di fronte uno scenario presidenziale stabile e stabilmente decisionista. Per lo stesso Letta oppure per Quagliariello. Rimettendo in gioco i due grandi partiti tradizionali. E emarginando l’ospite estraneo del Cinque Stelle. Oltre alla sinistra non allineata.

Ma a quale prezzo tutto ciò? Elevatissimo. L’Italia, in questo scenario, diverrebbe un paese del tutto subordinato al grande capitale globale. Senza più quelle istituzioni, in particolare di welfare, che l’hanno accompagnata per almeno due generazioni. Un paese mutilato. E forse persino da spolpare.

Sull’altare dei tassi di interesse pubblici  pagati al mercato finanziario internazionale, dobbiamo sacrificare quindi la sostanza della nostra Costituzione, del nostro ordinamento civile? Ha senso?

Non conviene invece seguire un percorso alternativo? Ovvero spingere, con tutte le nostre forze, sulla riduzione della spesa pubblica, del debito e sulla reintermediazione dello stesso debito sui cittadini italiani, anche con misure di prestito forzoso?

I giapponesi hanno un debito pubblico doppio del nostro. Risparmi analoghi (tre volte il debito) ma tutto il debito pubblico giapponese è in mano della famiglie giapponesi. Non risentono quindi di speculazioni o condizionamenti. E possono permettersi manovre reflattive persino spericolate.

Dobbiamo, certo, costruire uno stato meno costoso. Ridurre livelli politici e amministrativi inutili (e non solo le Provincie), snellire, mirare i servizi a chi ne ha necessità. Quindi una riforma costituzionale su questi temi ha perfettamente senso. Ma dobbiamo contrattare con l’area Euro (leggi Germania)  la reintermediazione del nostro debito.

Quindi, entro questi limiti, dobbiamo fare una meditata riforma Costituzionale.

Ma non per ubbidire a J.P Morgan.

 

 

 

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2 Responses to L’Italia del presidente J.p Morgan

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