Rito ambrosiano (al contrario)

C’era una volta a Milano, tanto tempo fa, Aurelius Ambrosius, oggi detto Ambrogio, quasi certamente santo. La sua grande innovazione dottrinale, di cui tuttora è ricordato, fu una sola. Ambrosius fu nominato vescovo di Milano in una notte. Sapeva poco di teologia, non era un prete, ma amava Cristo, il Vangelo e la Bibbia. Ed era un uomo della classe dirigente, ma non corrotto. Si inventò, con molta umiltà, il suo ruolo. Fece le messe semplicemente leggendo le scritture con il cuore. E fece partecipare i fedeli, in chiesa, al rito. Non più soltanto messa, e sue letture dal podio delle scritture, ma anche e soprattutto il suo canto. E canto corale aperto alle donne, ai bambini, al popolo milanese. Diede gioia ai milanesi in tempi bui, secoli prima dei gospel di altri cristiani immersi in tempi bui.

L’operato di Ambrogio lasciò un segno profondo in particolare sulla liturgia. Egli introdusse nella chiesa occidentale molti elementi tratti dalle liturgie orientali,in particolare canti e inni. Si attribuisce ad Ambrogio l’inno Te Deum laudamus, ma la questione è controversa e negata anche da Luigi Biraghi. Le riforme liturgiche furono mantenute nella diocesi di Milano anche dai successori e costituirono il nucleo del Rito ambrosiano, sopravvissuto all’uniformazione dei riti e alla costituzione dell’unico rito romano voluta da papa Gregorio I e dal Concilio di Trento.

Battè così i rivali eretici ariani di S.Lorenzo (la vecchia basilica imperiale), la invase pacificamente con la sua gente, e divenne prossimo al Papa per influenza sull’imperatore, e sulla sua corte ariana. Di fatto li sconfisse e governò fino alla morte le genti di Milano.

I suoi cori, e le sue antiche canzoni, che lui stesso componeva, se li scaricate e li udite, hanno un qualcosa di mediorientale. Forse a causa del suo assistente, Agostino di Ippona, un giovane avvocato immigrato tunisino. Uno che fece compiere un salto di un paio di ordini di grandezza in su alla visione cristiana e umana.

Con il termine di ambrosiano non si definisce solo il rito della Chiesa Cattolica che fa riferimento al santo, ma anche un preciso modo di cantare durante la liturgia. Esso viene indicato con il nome di canto ambrosiano. Esso è caratterizzato dal canto di inni, cioè di nuove composizioni poetiche in versi, che vengono cantate da tutti i partecipanti al rito.

A differenza di quanto avveniva per i salmi, solitamente cantati da un solista o da un gruppo di coristi, essi vengono invece cantati da tutti i partecipanti, in cori alternati, normalmente tra donne e uomini, ma in altri casi tra giovani e anziani o anche tra fanciulli e adulti. Alcuni di questi inni sono stati sicuramente composti da Ambrogio. La certezza viene dal fatto che a menzionarli è Sant’Agostino, che fu discepolo di Sant’Ambrogio.

A Milano Ambrosius da Treviri, questo mezzo tedesco aristocratico romano (Germania, Milano, Tunisia…. una costellazione molto attuale…), inventò quindi  la partecipazione. E il suo rito, riconosciuto a denti stretti da Roma, si trasferì nel dna del più potente comune d’Europa,  fece la forza dei milanesi dopo la distruzione della città da parte del Barbarossa, bilanciò le crudeltà dei Visconti, le follie degli Sforza, fece sopportare le grandi epidemie degli anni terribili dei due cardinali Borromeo, e il lungo dominio spagnolo. Questo senso di comunità, di solidarietà reciproca e evangelica fece Milano grande dentro.

Facciamo un semplice conto spannometrico . Dal 374 dopo Cristo sono passati 1641 anni, ovvero 85.556 domeniche.  Il suo rito ambrosiano,  officiato da almeno una ventina di chiese della città, ha quindi avuto all’incirca un milione e mezzo di repliche. Questo solo per dare un’idea grossolana della profondità dell’innovazione ambrosiana.

Questa abitudine, questa cultura di condivisione della Fede, ha dato l’imprintig della Città dove mi onoro di vivere. Primo grande Comune d’Italia, senza le sanguinose guerre civili medioevali di Firenze. Tanto per fare un esempio. E poi la strana assonanza di proverbi popolari come “Milan c’à l’coeur in man” e “Chi volta l’cu a Milan volta l’cu al pan”. Una cultura partecipativa-solidaristica che ha fatto la ricchezza di Milano. I Borromeo lo hanno mostrato al mondo. Città del dono popolare, ben più che ripagato. Città oggi della Stazione Centrale, e della sua silenziosa epica.

Milano ha quindi una piuttosto lunga relazione con la partecipazione. Non è quindi il caso che qualche politico la degradi proprio ora, sull’altare di una manciata di voti.

Qualcuno a Palazzo Marino, nella primavera scorsa, ha però pensato. Se c’è una cosa su cui siamo in ritardo è proprio questa, la partecipazione. L’abbiamo messa al centro del nostro programma elettorale arancione nella primavera 2011 e poi ce la siamo dimenticata. Che facciamo?

Certo, la giunta di Pisapia e Pisapia stesso se l’erano dimenticata. Appena insediati non hanno avuto tempo, hanno subito mazzate su mazzate, un buco di bilancio imprevisto, l’enorme grana dell’Expo, poi altri tagli pesanti di bilancio. Ben poco da co-decidere con i concittadini.

Vero. Ma nel 2015, a falle tamponate e di fronte a un popolo arancione insoddisfatto, è partita la ricerca sul santo graal. Dove e come fare un grande bilancio partecipativo, un evento che sanasse la mancanza. E portasse consenso e voti.

Provarci umilmente come nelle altre città d’Italia, che allocano piccole quote dei propri bilanci per metterle in palio su progetti ideati dai cittadini e poi definiti con l’amministrazione, quindi selezionati via voto sulla rete nei limiti delle disponibilità? Processi di partecipazioni limitate, locali, ma festose. Dove l’importante è esserci, creare relazioni, sentire come propria una parte della cosa pubblica.

Fare come Monza con oltre mille cittadini a creare progetti, piccoli, ma coinvolgenti?

Sperimentare con cautela all’inizio, sapendo che si tratta di macchinette complesse, che le grandi burocrazie non maneggiano facilmente?

Sperimentare in piccolo, ma su un gioco collettivo gioioso, per cominciare a crescere sulla partecipazione strutturata?

No, gli assessori Balzani e Rozza hanno deciso altrimenti. Servono subito i numeri grossi di  rilievo mediatico.

Della partecipazione inclusiva e gioiosa chissenefrega.

Milano è Milano. Deve essere la prima su tutto, figuriamoci sui bilanci partecipativi. Una iniziativa, anche sperimentale, deve fare immediatamente notizia. Dobbiamo essere i primi della classe.

Quindi, tanti soldi da mettere in pista. Cifre altisonanti, un milione di euro per ognuna delle 9 zone della città. Quindi nove milioni. Cifra mai vista, neanche a Parigi.

Quale assessorato può darceli, con i tagli e i chiari di luna attuali? La cultura? No. Il sociale? Manco, troppi immigrati in emergenza alla Centrale da gestire. La scuola? Non se ne parla. Il lavoro? Ha già i suoi progetti partecipativi in corso e, con i soldi disponibili, finanzia  startup e incubatori. La casa? E’ in ristrutturazione via dall’Aler verso Mm. Il decentramento? No perchè ai consigli di zona è stato negato ogni soldo reale, e da anni.

Ecco la soluzione. Le opere pubbliche, la manutezione della città che si basa su un fondo investimenti vincolato che procede lento come un bradipo da decenni. Mettiamo nove milioni di questo fondo sulle zone e inventiamoci la grande iniziativa.

Peccato però che questo settore sia in assoluto il peggiore per fare partecipazione. La manutenzione della città è un affare serio, complesso, noioso. Da bravi burocrati invisibili e non da cittadini creativi.

La manutenzione di marciapiedi, di tetti. Il massimo che si può offrire è una nuova pista ciclabile. O il rinnovo di uno spazio pubblico. Very exciting, coinvolgente, per un giovane milanese, come l’arrivo della cartella della Tarsu.

Ci sono almeno venti esperienze in Italia che dicono che la partecipazione deve essere libera, creativa, attrattiva. Possibile che Carmela Rozza e Francesca Balzani non si siano letto un articolo, scientifico e non, in proposito?

Niente. Si fa a ogni costo. E il risultato è  una specie di aborto.

Per inciso. Non sono affatto un oppositore della giunta Pisapia nel suo complesso. Anzi. Apprezzo il lavoro fatto da Pierfrancesco Majorino sul volontariato sociale, da Cristina Tajani sulle nuove imprese di giovani, anche dalla De Cesaris sull’urbanistica. Ho persino militato nei comitati per Milano.

Ma un errore è un errore. E l’uso improprio del termine “bilancio partecipativo” mi indigna un po’.

Perchè. Innanzitutto perchè si sceglie una società, Avventura Urbana, che viene da Torino e che per il suo primo esperimento di partecipazione ha scelto una metodologia  parteciptativa dimezzata, chiusa, tutta fisica, che rinchiude tutte le decisioni in ambiti ristretti e controllati (nove commissioni o laboratori), con pochi cittadini coinvolti (una trentina per commissione) selezionati non si sa bene come, nessuna inclusività sociale nella creazione di progetti, e ruolo solo informativo e di meccanico voto finale per il sito web e la rete.

Stiamo parlando di 270 milanesi nei laboratori, in tutto. Ovvero di una partecipazione attiva inferiore ai consiglieri di zona  esistenti (incomprensibilmente esclusi, pur essendo esperti volontari del territorio). Stiamo parlando dell’esclusione dei progetti dei cittadini, compressi in questi  piccoli e chiusi “laboratori”. Dove verranno martellati da un lato dai “facilitatori” di professione e dall’altro dai funzionari comunali con la lista di opere pronta. Alla fine, in poche sedute, dovranno decidere quali progetti mandare alla fase finale di voto. Sorge il sospetto, data la non trasparenza di questo schema, che alla fin della fiera adotteranno in massima parte la lista delle opere dell’assessorato Rozza.

Questa stravagante metodologia chiusa si basa su una sola giustificazione, a detta dei suoi architetti: evitare la formazione di lobbies di progetto durante il processo di formazione delle proposte. Fenomeno però che non mi risulta sia mai stato rilevato nella  letteratura scientifica sui bilanci partecipativi in Italia da nessuna parte.

Mentre invece questa metodologia prevede che possano votare un po’ tutti i progetti definitivi. Cittadini di varia collocazione, anche milanesi di altre zone o persino non milanesi. Strano, pericolo di lobbies nelle commissioni di progetto ma nessun pericolo di lobbies in un voto incontrollato, dove “truppe cammellate” potranno arrivare un po’ da ovunque. Boh.

Invito al proposito la dottoressa Jolanda Romano di Avventura Urbana e il professor Luigi Bobbio a documentare con dovizia ai milanesi e a me questo rischio fondamentale di lobbying. Su cui è costruita la loro metodologia chiusa. E di chiarire la contraddizione con il voto finale.

In realtà ciò che si nota  è l’esclusione della rete aperta dal processo (che ha solo funzioni ancillari) e la possibilità da parte dell’amministrazione di influire sui pochi decisori sorteggiati in questo percorso “controllato”.

Il contrasto è piuttosto stridente con il “crowdsourcing civico” lanciato dall’assessorato della Tajani. Qui i cittadini, via rete, possono proporre progetti che, se accettati il Comune finanzierà al 50%.

Come mai un metodo “pseudo-partecipativo” tanto chiuso? Va capita questa piccola industria della partecipazione “fisica”. Si tratta di aziende di terziario che offrono servizi di “facilitazione” a enti pubblici e imprese. Vivono del fatturato che fanno presso di loro. Se il committente non è soddisfatto smettono di lavorare.

Per cui. Se sono chiamati in una gara a fornire un sito web partecipativo vincono sulla qualità del software e degli algoritmi di voto. Ma, se devono operare su un processo fisico, spesso vincono sulla metodologia che più aggrada al committente. Quella che crea meno problemi. E promette i veri risultati sperati.

In questo caso si propone una sorta di consultazione più  o meno partecipata sulle opere pubbliche, tema su cui la creatività diffusa di proetto è quasi impossibile. Di qui la scelta del metdo più chiuso e controllato possibile.

Ci possiamo però fidare di questi “facilitatori”? Quali garanzie reali possono offrirci di essere “parte terza e indipendente” nel rapporto tra noi cittadini e il potere? Oppure sono dei “manipolatori”? Facciamo una lunga assemblea, come mi è successo, e poi loro scrivono il report finale come vogliono, ben diverso da ciò che si è detto e proposto. Invece, su un sito web, le regole sono chiare. Quel che si scrive, discute e propone è documentato fino all’ultima parola.

La rete è quindi ben più trasparente, terza e indipendente di questi esclusivi “facilitatori”.

Si badi. Io non ho nulla contro Torino. Ma quel comune è stato il primo ad adottare questo anomalo (ma facile) approccio centralistico l’anno scorso per un suo quartiere. Alla fine la commissione ha costruito e assemblato  tre “proposte” (generiche), verde, sport e scuole, e le ha messe in votazione tra i cittadini. E’ passata quella sul verde urbano. Ora sono alla ricerca dei progetti concreti da avviare.

Non era meglio, caro Fassino, far competere dieci o cento progetti spontanei dal basso e farli scegliere dai diretti interessati? Boh.

Partecipazione, quindi, o manipolazione del consenso?

Quello che ci viene oggi  presentato dal Comune di Milano e dall’Assessorato Lavori pubblici non è quindi un bilancio partecipativo. Ma un’altra cosa. Un bilancio partecipativo, come si fa in tutto il mondo e anche in molte città italiane (ultima Monza) è una messa a disposizione dei cittadini di una quota (per lo più piccola) del bilancio locale corrente. Su questa si stimolano i cittadini a generare idee, aggregarvi consenso, e con la collaborazione del Comune a tradurle in progetti esecutivi. I quali vengono votati in competizione tra di loro. Per esempio: un gruppo di studenti che progetta di ricolorare la scuola e la strada adiacente. E poi, ottenuti i fondi per gli strumenti, lo fanno. In una festa.

In questo caso invece, sugli investimenti in opere pubbliche, abbiamo una mera raccolta di “esigenze” dei cittadini zona per zona. Poi la delega a una commissione deliberante ristretta di zona formata non si sa come, forse sorteggiata, forse selezionata dall’alto. In cui cittadini prescelti (da chi?) operano con i facilitatori di Avventura Urbana di Torino e i funzionari dell’assessorato per definire la lista dei progetti da mandare in votazione.

Ovvio, i progetti già definiti dall’assessorato avranno il vantaggio di essere subito cantierizzabili, quelli più “creativi” no. per questi i temi sono stimati a dopo il 2016, dopo le prossime elezioni comunali. E quale membro dei laboratori avrà il coraggio di spingere progetti a così alto tasso di incertezza?

Si va infine al voto (senza controllo di residenza) e alcuni progetti verranno approvati. Nei limiti del milione per zona.

Questo l’iter di una che chiamerei più propriamente come “consultazione-deliberazione popolare controllata sulle opere pubbliche comunali“. Termine del tutto dignitoso, per carità. Ma lascerei perdere il più nobile “bilancio partecipativo“, dato che proprio non è tale la cosa.

In sè l’operazione è comunque geniale. Il comune e l’assessorato non rischiano nulla. Nelle commissioni chiuse i cittadini saranno faccia a faccia con i facilitatori professionali, e probabilmente indirizzati alle scelte “giuste”. In tal modo opere pubbliche a rischio che altrimenti avrebbero visto comitati di opposizione spontanei (vedi caso Pratone-M4) avranno l’imprimatur “partecipativo”. E nessuno potrà opporsi di fronte a cotanta prova di democrazia.

Questo è, quindi, un bilancio partecipativo solo di facciata. I cittadini infatti non avranno la possibilità di proporre progetti ma solo “esigenze” che verranno poi inglobate in commissioni scelte dall’alto (moderatori di Avventura Urbana e Comune) con il compito di formulare i veri progetti che andranno al voto finale. E con un privilegio per quello che è già in itinere nell’assessorato di Carmela Rozza.

E l’aspetto più deludente della faccenda sta un una cifra:  lo 0,0000002% di milanesi (270 su 1,2 milioni)  realmente coinvolti in questo processo (supposto partecipativo) come progettisti e deliberanti. Il peggiore bilancio partecipativo mai concepito in termini di coinvolgimento attivo.

Non solo. Per la scelta dei 30 cittadini che in ogni zona formeranno i progetti i facilitatori di Avventura Urbana ci dicono che si sceglierà il metodo del….pallottoliere. Estratti a sorte ma con eventuali correzioni delle commissioni decise dall’alto.

Il pallottoliere per selezionare i cittadini attivi di Milano? Il pallottoliere nella città che ha inventato la partecipazione, delle Cinque Giornate, del Cnl Alta Italia? Stiamo scherzando?

Un bilancio partecipato senza creatività sociale, senza inclusione e entusiasmo, senza giovani che progettano i colori della loro scuola, famiglie che ripensano aree verdi, strutture sportive, iniziative culturali. Niente. Marciapiedi, qualche pista ciclabile, qualche tetto da rifare il tutto deciso dentro commissioni chiuse, di cittadini non si sa come nominati, con i funzionari comunali pronti con la lista dei progetti possibili. E “facilitatori” al lavoro per mediare….E infine il voto sulla lista della spesa fatta da altri. Ma vi pare una roba decente? Che fine farà il termine partecipazione alla fine di questa tristezza? Diverrà la barzelletta preferita dei milanesi?

E infine la cicliegina sulla torta. Il bando del Comune recita che “se il bilancio partecipativo avrà successo verrà replicato ogni anno confermando con  affidamento diretto (senza gara) l’assegnatario del primo bando“.

Che significa “successo” per gli architetti dell’iniziativa? Grande risposta dai cittadini? Oppure opere pubbliche che filano lisce come l’olio?

Che la misura del successo sia propria o impropria il punto è che a Milano verrà propinato questo tipo di “partecipazione” anno dopo anno, in automatico. A mio avviso una vera jattura. Anche per l’immagine della città.

E il rischio che questa grigia “consultazione chiusa” milanese possa divenire lo standard per la partecipazione nei grandi centri urbani italiani. Fino a distorcere l’intero mondo nascente della democrazia partecipata.

Mi spiace, questa roba proprio non la bevo. E non bevetevela nemmeno voi. Fa male a Milano.

 

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