Il popolo dei 4mila miliardi

A un certo punto della sua storia, suppergiù dal 1981 al 1993, un pezzo d’Italia fu cosparso, e per più di un decennio, da una piogga d’oro. L’Italia degli abbienti, dei robusti investitori, ma anche dei piccoli risparmiatori (guidati dalle banche). A loro venivano offerti titoli del debito pubblico italiano a tassi di interesse astronomici, anche del 20% nominale, ovvero del 4-5% reale. Una vera pacchia.
il “popolo dei bot” italiano è stato una sorta di miracolo per alcuni. In realtà dietro c’era una maledizione per il paese. Da quando Andreatta e Ciampi decisero, nel 1981, la prima vera misura neoliberista nella storia dell’Italia. Ovvero il “divorzio” tra Tesoro e Banca centrale. La Banca d’Italia non sarebbe stata più obbligata, alle aste dei titoli del Tesoro, a comprare a prezzi prefissati (dal Tesoro stesso) i titoli invenduti, calmierandone i prezzi. E così cominciarono a succedersi aste di titoli di stato ben diverse dal passato. Prima il debito filava abbastanza liscio a tassi reali (al netto dell’inflazione) dell’1-2% e a livello dell 70% del Pil. Dopo, bastava che un cartello di acquirenti “potenti” lasciasse l’asta scoperta per il 10% per costringere il Tesoro, in fine di seduta e in velocità, ad aumentare gli interessi, e aumentarli fortemente. Bastava che negli ultimi minuti dell’asta qualche eccelso speculatore, per esempio qualche specialista finanziario Made in Usa, riuscisse a coalizzare altri operatori italiani per fare il giochetto. E il Tesoro doveva alzare i tassi per tutti i partecipanti all’asta, e per tutti i titoli venduti quell’infausto giorno.
Dal 1981 al 1993 il peso del debito sul Pil salì quindi dal 70% a quasi il 130% del Pil. Quasi al fallimento del paese. Lo Stato non riusciva contemporaneamente a pagare deficit di bilancio rilevanti e interessi astronomici presenti e aggiuntivi. Li riportava quindi  a debito sull’anno successivo. Tecnicamente questo si chiama anatocismo, interessi che generano altri interessi. E’ ancora oscuro perchè questo folle divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia non fu fermato in tempo. Forse perchè era l’affermazione di un principio ideologico liberista: l’indipendenza della Banca Centrale (un principio politico statutario che però nemmeno la patria del liberismo, gli Usa, assegna esplicitamente alla sua Fed).
Il tutto contro uno stato dirigista (leggi, di sinistra) che comunque prima, con Guido Carli e Paolo Baffi, non aveva esattamente dato prova di cattivo governo dell’economia, del debito e della moneta.

Sia come sia nel 1992 l’Italia era sull’orlo del fallimento ma le famiglie abbienti italiane avevano avuto in dono patrimoni mobiliari tra i primi al mondo.

Dono non meritato? Ad essere onesti direi di no. Dal 1981 la folle corsa del debito pubblico non è stata di sicuro sperperata, ma tesaurizzata, investita, diversificata, globalizzata. Intorno è nata, in Italia, una delle maggiori industrie finanziarie europee di gestioni patrimoniali. Che oggi lavora su 4mila miliardi di massa patrimoniale mobiliare complessiva, 3 volte il Pil italiano e più del doppio del debito pubblico nazionale.
Le famiglie ricche italiane e di ceto medio mostrano, su questo lato patrimoniale, un comportamento molto conservativo, molto orientato all’accumulazione. I patrimoni sono da decenni l’assicurazione sulla vita delle famiglie, l’ancora di salvezza dall’instabilità del paese, l’antidoto alle crisi, il riferimento per i figli.

Per far questo, per ottenere questi risultati aggregati (straordinari) il mondo patrimoniale italiano ha investito sull’Italia? Assolutamente no. Fin dagli anni 90 questa gigantesca massa patrimoniale ha abbandonato progressivamente i lidi del titoli di stato e ha investito quote via via crescenti nell’universo mondo dell’economia. A seconda del miglior rendimento/rischio. Oggi la componente della ricchezza finanziaria in risparmio gestito (leggi fondi di investimento e gestioni patrimonali)  è arrivata a circa 1700 miliardi. Si tratta di operatori professionali che investono al meglio, per conto del 10% della popolazione (che detiene il 50% della ricchezza) e lo fanno su base globale.

A livello di patrimonio il primo trimestre 2015 si chiude con un ennesimo record: l’industria raggiunge quota 1.731 miliardi di euro, un dato in crescita del 24% rispetto ai 1.391 miliardi del primo trimestre dell’anno scorso.

E’ il primo paradosso. Una disponibilità patrimoniale enorme, una delle prime in Europa, ma insieme una Borsa italiana fanalino di coda nel continente. Quanta di questa ricchezza muove l’economia italiana?
Già, l’Italia è oggi un paese di piccole e medie aziende. Dopo il crollo a catena della grande industria, pubblica e privata, negli anni 90, le banche hanno assunto un doppio ruolo: di finanziamento (a debito, quasi mai accompagnando Ipo e azioni) delle imprese e, insieme, di gestori patrimoniali per il popolo dei 4mila miliardi.

Facciamola breve.  Non è possibile che abbiamo un governo che non sappia queste cose, che non le sappia Renzi e Padoan (il primo, do varie Leopolde in cui non si parlava d’altro). Non è possibile che non sappiano che dal 2011 ad oggi il popolo dei 4mila miliardi ha guadagnato circa 300 miliardi investendo in Asia, Usa, in derivati e fondi vari, anche speculativi. Mentre il resto del paese, salvo questo 10% di famiglie ricche, ha perso il lavoro, i figli sono rimasti a marcire, per 7 milioni di italiani si è spalancata l’area della povertà.

Si può correggere questa follia, antica e presente? Bè intanto sarebbero utili degli incentivi fiscali per invogliare i patrimonializzati a investire su attività italiane capaci di generare crescita. Sarebbe necessaria a fronte di  avere una banca moderna, anche pubblica, capace  produrre gli “oggetti” passibili di questi incentivi. Sarebbe cruciale un deciso aiuto al crowdfunding, sia in forma azionaria che remunerata, senza troppe Consob di mezzo, tassazioni iva e quant’altro.

Oggi molte startup italiane aprono fiscalmente i battenti in Usa (con spese rilevanti) pur di accedere a Kickstarter o Indiegogo. Questo è il segno di una politica in atto volta, in Italia, alla protezione del solito sistema bancario (che peraltro non fornisce capitale di rischio) e avversa alla crescita.

E qui viene la parte difficile della faccenda: associare alla rete un vero promotore di innovazione diffusa..

Non tutti i risprmiatori possono investire sul crowdfunding. Sono necessari prodotti finanziari non senza rischio, quali un fondo dedicato a nuove imprese italiane del design, dell’automazione, dell’internet delle cose, dell’alimentare qualificato, delle monete complementari regionali….Prodotti innovativi ma gestiti, e gestiti bene.

Serve una banca pubblica, che di banca ha solo la licenza per raccogliere fondi presso la Bce all’0,5, per il resto è un sistema di incubazione, un capofila dei pochi venture capitalist privati italiani, un regista e gestore di crowdfunding, un finanziatore di centri di selezione dei business plan e di accelerazione….

Il crowdfunding in Italia ha raggiunto l’anno scorso 32 milioni di fondi raccolti (quasi il triplo sul 2013) su 48mila progetti pubblicati in rete, su varie piattaforme. Per un soggetto investitore in imprese innovative il crowdfunding non solo un canale finanziario. I siti assolvono infatti ad alcune tra le attività più critiche nel processo di creazione d’imprese. Intanto promuovono idee, progetti e startup. Poi, nei fatti, la rete li seleziona e crea delle comunità di supporters intorno alle iniziative migliori.

Tutto questo può avere un valore enorme. Il terreno per una politica industriale innovativa è già seminato. Si tratta di trovare una linea di collegamento sinergico tra capitali (privati), comunità di rete, soggetto attivo.

Una banca capace di lavorare sulle azioni, più che sui prestiti, e mettere sul mercato un fondi di investimento fatti di aziende italiane promettenti. E insieme di promuovere la creazione di nuove imprese e le Ipo. Capace di consolidare le startup, seguirle, e trasformarle in imprese robuste.

Questi fondi, di questa banca o di altre che seguiranno, rispettano i criteri degli incentivi? I prodotti finanziari che rispettano i requisiti vengono opportunamente certificati da un’entità terza.

A quel punto può scattare il bastone e la carota. Una patrimoniale limitata, dell’0rdine di  qualche punto percentuale per mille, di fatto annullabile se l’investitore sposta sui fondi incentivati una sufficiente quota patrimoniale. Solo il 5% di 2mila miliardi sono  100 miliardi, una cifra imponente per gli investimenti italiani in capitale di rischio nelle piccole e medie imprese.

(Gli eventuali introiti di questa patrimoniale, sia detto per inciso, andrebbero esclusivamente destinati al sistema di creazione d’impresa).

Rsultato i 4mila miliardi cominciano a muoversi verso il nuovo, anche dell’Italia. Guadagnandoci forse anche di più rispetto a bond bancari, titoli di stato o fondi globalizzati.

Non è infatti nemmeno pensabile che questi 4mila miliardi non  possano contribuire in modo significativo al risveglio del paese.

Tutti poi ripetono, economisti, governo e oltre, che il debito pubblico, il macigno che ci ammorba da 34 anni filati,  lo si riduce creando crescita. Qui abbiamo il figlio primogenito di quel debito, questo popolo dei 4mila miliardi, che ha le vere risorse per investire e invertire il trend negativo. E allora?

Non facciamo nulla? Lo tassiamo (ancora una volta) e basta?

(o meglio, tentiamo di tassarlo in un mondo in cui i patrimoni  si spostano con un click?).

Forse c’è di meglio.

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Potranno sembrarvi idee di destra…. Eppure…

Se siete interessati, qui trovate una presentazione sviluppata per un convegno di economisti di Sel

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