Verso un debito pubblico europeo (ma non si deve dire)

Di sicuro il commento più sorprendente all’annuncio di Mario Draghi di oggi viene, secondo me, da un termine, “Qe permanente”, coniato da due ben noti economisti della Bocconi, Francesco Giavazzi e Guido Tabellini.

L’articolo (Per un Quantitative easing efficace) pubblicato sulla Voce.info, non è neanche troppo complesso o gergale. Esamina, in modo abbastanza impeccabile, i vari effetti di impatto sull’economia (e la ripresa) del massiccio programma di acquisto di titoli di debito pubblico da parte delle banche centrali europee.

L’Eurosistema comprerà, per i 19 mesi successivi al primo marzo prossimo, titoli di stato e affini  al ritmo di 60 miliardi al mese, per un totale di 1140 miliardi. Con la possibilità di andare anche oltre, se non verrà raggiunto l’obbiettivo di un tasso di inflazione (intorno al 2%) tale da risultare scongiurato il rischio di un deflazione (leggi anche depressione autoalimentante) oggi piuttosto elevato.

In soldoni: la Bce gestirà e garantirà il 20% di questi acquisti, il resto lo faranno le banche centrali nazionali. Gli acquisti saranno distribuiti in relazione alle quote di ogni banca centrale nazionale dei 19 partecipanti all’eurosistema nel capitale Bce. Per l’Italia il 12,3%, quindi 140 miliardi di acquisti, pari al 6,5 di un debito pubblico italiano giunto a 2134 miliardi nel terzo trimestre 2014 (ultimo dato disponibile).

Non è molto, a prima vista, come si vede, sul piano del puro alleggerimento del debito (specie in Italia che deve sopportare il più pesante carico d’Europa).

Ma nell’annuncio di Draghi di oggi non si fa mai menzione di questo punto. L’acquisto di titoli di stato è solo un mezzo per pompare liquidità nelle economie dell’eurozona. E per questo mezzo ottenere più attività e quindi quel quanto di  inflazione necessaria.

Come?  Le banche centrali compreranno Btp, Bund, Bonos e quant’altro sul mercato secondario (dato che il trattato istitutivo della Bce le vieta qualsiasi finanziamento diretto agli Stati). Ovvero acquisteranno dalle banche (che a loro volta compreranno i titoli nelle aste governative). La domanda delle banche centrali porterà i prezzi dei titoli al rialzo e i loro rendimenti di converso al ribasso. Le banche avranno un guadagno dall’acquisto e vendita, gli Stati dal minor interesse netto da pagare.

Questo effetto “liquidità” sarà importante?  Le banche saranno spinte a riaprire il credito?

Giavazzi e Tabellini paiono scettici. “Vi è accordo generale sul fatto che gli effetti attraverso il primo canale siano contenuti. In molti paesi la domanda di credito rimane piuttosto debole: il vincolo principale sulle banche è la mancanza di capitale più che di liquidità, e i tassi di interesse sono già molto bassi”.

Passiamo all’ effetto “minori interessi sul debito pubblico”. Già oggi, in molti paesi europei, i titoli di stato (a breve ma non solo) rasentano i rendimenti negativi. In Italia un Btp a 3 anni viaggia all’1% ( la Bce-Banca d’Italia comprerà solo titoli oltre i due anni). E’ quindi realistico pensare a un dimezzamento di questo tasso. Quindi a un risparmio di non più di 2-3 miliardi annui per le casse dello Stato.

Il Qe è però un segnale globale. E di sicuro il suo maggiore impatto lo eserciterà sul tasso di cambio dell’Euro, che infatti oggi ha accelerato in discesa. Ottimo per ridare fiato alle industrie esportative e anche per importare inflazione.

E qui ci fermiamo con gli effetti puramente “monetari” del programma. Ma Giavazzi e Tabellini, ambedue economisti di impeccabile impostazione liberale, vanno oltre, ben oltre.

Prendono in considerazione il profilo temporale del programma Bce. Se è corto, ovvero se i titoli di stato verranno acquistati dalle banche centrali e poi rivenduti prima delle loro scadenze, per lo Stato emettitore il guadagno sarà solo nella limatura dei tassi di interesse.

Se invece il Qe dovesse prolungarsi anche oltre le date indicate, o persino divenire permanente, questo significherebbe, di fatto,  che interi pezzi di debito pubblico in Europa verrebbero presi in carico dall’Eurosistema e, di converso, i bilanci degli Stati verrebbero alleviati, dando luogo (a parità di defict) a spazio per investimenti o a  sgravi fiscali.

“Come ha spiegato William Buiter, quando una banca centrale intraprende un’operazione di Qe sostituisce debito nazionale con denaro, che è una passività non rimborsabile. Questo allenta il vincolo di bilancio intertemporale del governo. Se la banca centrale detiene il debito permanentemente, la riduzione eguaglia l’intero ammontare del Qe. La riduzione equivale invece ai pagamenti sugli interessi se il debito è mantenuto solo temporaneamente o non è rifinanziato alla scadenza.”

Un Qe permanente sarebbe, nei fatti (e con aggiramento del problema Germania), il primo atto di un percorso verso un debito pubblico europeo. Non mutualizzato (solo per il 20% garantito direttamente dalla Bce) ma gestito dalle banche centrali nazionali.

Comunque abbastanza efficace, specie nei possibili passi successivi,  per stimolare le economie europee.

Faccio un semplice, elementare, ragionamento. Perchè tirare fuori un bazooka di questo calibro (1140 miliardi in 19 paesi) solo per ottenere l’Euro in parità con il dollaro (quando l’Eurozona esporta solo il 20% del pil), rinsanguare un po’ i bilanci bancari e limare di mezzo punto gli interessi sui debiti pubblici? Il tutto mentre il prezzo del petrolio scende e fornisce da solo un massiccio stimolo ai bilanci aziendali?

C’è una sproporzione evidente tra mezzi impiegati e risultati prevedibili, in un contesto solo temporaneo.

Draghi e il vertice Bce credo siano perfettamente coscienti delle condizioni di depressione in cui versa il Sud Europa (e in parte anche la Francia). E il contagio negativo sta allargandosi anche verso nord.  Non basta quindi una seppur massiccia iniezione di liquidità per invertire il trend. E’ necessario anche entrare a piedi uniti nella politica fiscale, nei bilanci degli stati, congelando debito. Una strategia persino compatibile con il super-restrittivo Patto di bilancio (o Fiscal compact) che prevede il pareggio, ma anche allenta i vincoli quando le economie sono patentemente al di sotto del loro potenziale (come è per il Sud-Europa intero).

D’altro canto sotto gli occhi della Bce c’è l’evidente e gigantesco caso americano. La Fed,  dice uno studio di Goldman Sachs,  ha comprato, stampando dollari, ben il 28% del nuovo debito pubblico netto Usa dall’inizio della crisi ad oggi (titoli per 2000 miliardi di dollari). E il deficit spending federale è così progressivamente potuto salire all’ 8-10% del Pil dal 2009 al 2012 . Una gran massa di investimenti e di spese pubbliche alla base della ripresa statunitense (si pensi alla nuova assistenza sanitaria generale di Obama).

Queste sono le cifre vere con cui confrontarsi. Non il risicato 6% che proviene dall’annuncio di oggi.

Sono quindi convinto che Giavazzi e Tabellini non abbiano scritto a caso di Qe “permanente”. E ho il forte sospetto che Mario Draghi, misurando ogni parola, abbia solo iniziato un percorso, di cui quella di oggi è la prima tappa. (Negli Usa se ne sono succedute tre, a intensità crescente).

Aggiungo che mi spiacerebbe se mi sbagliassi.

 

 

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