Ieri due notizie significative hanno segnato lo stato di tensione che percorre l’Eurozona, alias Europa, alias continente malato.
Sappiamo bene cosa sta succedendo. Invece della tanto decantata e strombazzata ripresa liberista, il continente è sull’orlo della deflazione autoalimentante, alias depressione (come si diceva negli anni 30), una situazione in cui si sta male davvero, si fallisce, non si lavora e spesso non si mangia, si fa la fila per un pezzo di pane caritativo, si soffre, si emigra. E infine si marcia e si spara. Le immagini della Germania di Weimar, di Hitler e degli Stati Uniti degli anni 30 sono eloquenti. (qualcosa di più recente? Alba Dorata greca…)
Non fosse stato per il loro fortissimo tasso di risparmio anche i giapponesi, negli anni 90, avrebbero provato i morsi della deflazione. Ma quel popolo disciplinato, con l’aiuto di un governo che ha esploso investimenti e debito pubblico al 200% del Pil (debito tutto internamente acquistato) ha superato in qualche modo la nottata.
Noi ci siamo vicini, troppo vicini. Già ora in Grecia i prezzi scendono del 2,2% e in tutta l’eurozona la media è lo 0,5%. Sotto il 2% di inflazione la spirale depressiva è molto probabile. E poi arrestarla e invertirla è un esercizio davvero difficile.
In questo scenario uno dei paesi più minacciati, l’Italia, per bocca del suo presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha avanzato la richiesta di poter avviare investimenti pubblici e gestire con qualche margine i processi di riforma in cantiere. Al di là dei trattati-camicia di forza.
L’Italia non ha margini. Paga il più alto avanzo primario sul suo bilancio d’Europa. Sta torchiando i suoi cittadini e le sue imprese con la più elevata pressione fiscale dell’eurozona. Sta soffrendo. Ed è un paese che dal 1992 (ben 22 anni filati) è in austerità, alla disperata e sempre fallita rincorsa del suo gigantesco e insensato debito pubblico (qui per saperne di più).
L’Italia paga oltre 90 miliardi annui di interessi sul suo macigno-debito. E’ costretta a finanziare ricchi, banche, investitori e speculatori internazionali con i nostri soldi, preziosi, che servirebbero invece a investire, creare lavoro, istruzione, nuove imprese, ricerca e servizi primari.
Renzi chiede alla Merkel una modifica del trattato di Maastricht per escludere dal tetto del 3% di deficit gli investimenti e le riforme. Prima il ministro socialdemocratico dell’economia dice si e poi arriva lei, con un secco ennesimo no.
Già, ha le sue belle gatte politiche da pelare. I grandi banchieri tedeschi insorti contro la Bce e anche la Bundesbank per il suo ultimo annuncio di una mini-manova espansiva, con prestiti agevolati per 400 miliardi (bruscolini sulla scala dell’eurozona e del problema) alle banche che daranno crediti alle piccole e medie imprese.
Una manovra “unfair” verso i risparmiatori (tedeschi), gridano i colossi bancari germanici (quelli salvati con 20 punti di Pil di debito pubblico tedesco aggiuntivo dopo lo schifo mondiale dei derivati, ora però divenuti integerrimi salvatori della patria).
E la Merkel, eletta da loro, prende nota e esegue. Niente concessioni a quegli straccioni di italiani, greci, spagnoli, e persino francesi. Gli inglesi se ne fregano e intanto con la City e la sterlina ben sostenuta da un vera banca centrale, fanno profitti (ovviamente per i loro ricchi).
La commedia gira intorno, in realtà, alla nomina di un presidente della commissione europea che (come il malaugurato precedente) faccia innanzitutto gli interessi dell’establishment di Berlino?
Secondo capitolo. Protagonista l’Fmi, quel fondo monetario internazionale di Washington voluto da Keynes nel dopoguerra e poi trasformatosi, nei decenni, in paladino del neoliberismo, delle austerità più dure e distruttive in tanti paesi in difficoltà. Prima fra tutti la povera Argentina.
Ma c’è un limite, direi professionale, alla cecità degli economisti. E così l’Fmi, ci dice il Financial Times, con sotto gli occhi i dati dell’incipente depressione europea, cambia rotta. E consiglia alla Bce, anzi più che consiglia, di adottare le stesse misure da tempo prese negli Usa, in Giappone, in Gran Bretagna.
Quali? Semplice, comprare (in pratica sterilizzare) la vera, strutturale, perdurante, ammorbante fonte di infiammazione e paralisi dei nostri paesi: il debito pubblico. Questo tumore, nel caso nostro, piuttosto antico. Creato negli anni 80 da gentaglia del calibro di Giulio Andreotti e Bottino Craxi, sviluppatosi sul clientelismo e sul voto di scambio, una coltura batterica che si automoltiplica, che si perpetua sul nostro deficit immunitario (evasione, corruzione e criminalità), anno dopo anno, via interessi non pagati, interessi su interessi e che fanno altro debito. E che infine uccide piani di investimento, politiche pubbliche, toglie gradi di libertà a tutti, ci impone nuove tasse, ammazza i deboli per arricchire i ricchi. Cancella futuro. E ha creato per vent’anni, sotto Berlusconi, stagnazione.
Pensate a un’Italia (onesta) che, dopo aver strapagato per decenni sul suo debito, avesse di colpo disponibilità non dico dei 90 miliardi (il 6% del pil) che deve pagare in assurdi interessi ma di metà, 40 miliardi, per ridurre le tasse sulle imprese, per organizzare una vera agenzia anti-evasione e corruzione, per rimettere i tetti alle scuole, per rifare le strade, per aiutare studenti poveri, e magari anche qualche sostegno ai precari.
Il Fondo monetario internazionale prende le cifre della Fed e dice alla Bce. Fallo anche tu. Compra mille o duemila miliardi di debito pubblico europeo all’anno. Ovvio, sta dicendo: sgrava Italia, Grecia, Spagna e Francia di un bel pezzo dell’infiammazione. Dagli la possibilutà di ripartire, andiamo. Gli Usa e il Giappone sono in leggera ripresa. Grazie a queste politiche espansive non convenzionali il pericolo di depressione là è stato scongiurato.
Risposta dalla cosiddetta opinione pubblica tedesca: non vogliamo il bailout del Sud Europa. Benissimo, verrebbe da dire, e noi non vogliamo più comprare prodotti tedeschi. Dichiariamo l’embargo contro chi si arricchisce facendo gli affari con i cinesi, che poi con le loro donne e bambini sfruttati da lager, viene in casa nostra a rubarci lavoro e futuro.
La Germania cavalca questa globalizzazione. E vede l’Europa come una rottura di scatole. Mette il veto su quasiasi proposta positiva per tutti. E’ immersa nel suo egoismo industrial-finanziario. Travestito da austero rigore.
L’Fmi, con la sua raccomandazione, ha trovato nei vertici Bce una risposta molto silenziosa, prudente. La linea di Draghi, ragionevole, è di valutare prima gli effetti della manovra sui prestiti alle Pmi e poi considerare altro (nonostante le urla dei pescecani). La Bundesbank ha difeso Draghi. D’altro canto quando uno è un economista e banchiere centrale i dati li deve guardare, e vengono prima delle pance anti-europee, dei portafogli più o meno gonfi, e delle ideologie.
Molto probabile quindi che, tra un paio di trimestri di rilevazione, ovvero a fine anno la manovra sui titoli di debito pubblico si farà comunque, per pura necessità, e necessariamente durerà (come la Fed e Bank of Japan insegnano) vari anni. E quindi quote importanti di titoli di debito dei vari stati entreranno nelle casse (anzi nei computer) della Bce. Una mutualizzazione de facto dei debiti?
E allora? E allora, al posto di questa soluzione tutta tecnocratica, fragile e provvisoria, non è il caso che assieme si avvi quella che Alexis Tsipras, il greco a capo di Syriza, ha proposto come una “conferenza europea sulì debito”? Che insieme si proceda un “bilancio pubblico europeo”, quale quello proposto da Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, nella sua ultima relazione annuale? E infine quello che la stessa Merkel ha più volte detto e sostenuto: un’ “unione fiscale europea” , in pratica un ministero dell’economia continentale depositario del debito pubblico in eurobond (in tutto o in parte) del continente. Non è il caso che questa Europa fragile, mezza delegittimata e odiata dai suoi popoli, si giochi il suo futuro sull’uscita da questa crisi?
Dalla crisi, dalla crisi profonda, puo’ nascere lo stato federale europeo. Il complemento vero dell’Euro e della Bce. Il soggetto della sua stabilità, crescita (vera), degli interessi dei suoi popoli, della sua democrazia. Non vedo altra strada, fuori dalla depressione e delle sue albe dorate.
La chiave è il debito, nel male come nel bene.