Sedici gradi di separazione

E’ interessante, ed è possibile, costruire uno scenario dell’Europa dopo le prossime elezioni del Parlamento europeo del 25 maggio.

Il primo passo è quello di andare su Electio2014 per fare un po’ di conti sui migliori sondaggi aggregati oggi disponibili.

Emerge che socialdemocratici (208 seggi) più sinistra (51) e verdi (42)  raggiungono i 301 seggi.  Contro i 317 di popolari (213) più liberali (62) più conservatori (42).

N.b. Lascio fuori l’Efd, connotato da partiti antieuropei come la Lega e gli indipendentisti inglesi.

Sedici seggi di differenza tra le due coalizioni non sono molti.  Se i liberali, per esempio, si spostassero nel campo socialdemocratico. Oppure i conservatori non aderissero a una coalizione (troppo “europeista”, per esempio) con i popolari l’asse politico del Parlamento europeo, e forse anche della Commissione ne uscirebbe ribaltato.

Avremmo, dopo decenni di egemonia democristiana, un’Europa a guida socialdemocratica.

Ma è altresì interessante osservare non solo i numeri assoluti, ma anche gli andamenti rilevati nei sondaggi. Soprattutto per i popolari, che partono da una scorsa legislatura a 275 seggi ora sono a 213. Dove vanno i 62 seggi perduti?  Quasi esattamente nella fetta all’estrema destra, i partiti e movimenti antieuropeisti non aderenti ad alcun gruppo: da 32 passano a 97 seggi, triplicati, e sottraggono seggi anche ai liberali e ai conservatori.

La carica degli antieuropeisti (dal 5 stelle al Front National,  agli indipendentisti inglesi fino ad Alba Dorata greca) è abbastanza evidente. Dal primo sondaggio di gennaio guadagnano cinque punti secchi, poll dopo poll.

E’ quindi lecito pensare, seguendo il trend, che al 25 maggio l’onda della protesta crescerà ancora. Onda che finora non ha toccato nè i social democratici nè la sinistra. Anzi, in qualche misura (salvo i verdi) li ha rafforzati.

Da 194 seggi della scorsa legislatura il Pse passa infatti a 208. E la sinistra da 35 a 51.

Questo significa che l’elettorato europeo sta pesantemente punendo le politiche liberiste e di austerità, sta pesantemente punendo l’attuale governo dell’Europa e esprime una non fortissima ma ben visibile preferenza per una svolta di centro-sinistra.

Peccato che questa svolta di centrosinistra sia tenuta un po’ sottotono da Martin Schultz, navigato politico che comunque deve fare i conti, in casa sua, con la sua grande alleata di governo, Angela Merkel.

Sia come sia, dalle urne del 25 maggio potrebbe uscire la svolta. Una coalizione socialista-riformista capace persino di prendere la presidenza della Commissione. E avviare un fase nuova.

La probabilità è non nulla. Così come è non nullo l’esito, all’opposto, di una sorta di “larghe intese” a Strasburgo. Corredato da un tecnocrate (un altro) alla Commissione, come la candidata in pectore Cristine Lagarde.

In sostanza. Un esito per lo status quo, mentre vi è un bel pezzo d’Europa che soffre per la crisi. E si aspetta risposte.

Qualcosa mi dice che non sarà così. Che lo status quo non reggerà.  Il diaframma di 16 seggi tra uno schieramento socialdemocratico che comunque cresce e l’altro che perde posizioni sotto la spinta della protesta e del non voto, è davvero piccolo.

Supponiamo quindi che le prossime tre settimane vedano una spinta seria da parte dei riformisti europei. Che, per esempio, in Italia la lista Tsipras riesca a superare la barriera del 4%, conquistando 5 seggi aggiuntivi alla sinistra e alla potenziale nuova coalizione di governo. E altrettanto avvenga in altri paesi europei.

Martin Schultz diverrebbe presidente della Commissione, e con una maggioranza di centrosinistra a Strasburgo?

Il lancio di un “piano Marshall” per il Sud Europa in crisi? L’avvio di una conferenza europea sul debito pubblico (non solo propugnata da Tsipras)? Un negoziato su quell’European Redempion Pact* dei cinque economisti del governo tedesco bocciato dalla Merkel nel 2011 ma accettato dai socialdemocatici tedeschi?

Non potrei che augurarmelo. Per l’Italia sarebbe davvero una svolta, scrollarsi di dosso almeno una parte di quel carico di interessi sul debito pubblico che ci schiaccia fin dal 1992.

Stiamo parlando, però, di ipotesi. Se invece vogliamo stare ai fatti dobbiamo dare uno sguardo alla Grecia. Qui Syriza, il partito di sinistra guidato da Tsipras, viene accreditato oggi della maggioranza assoluta. E il 25 maggio, insieme alle europee, vi saranno le amministrative elleniche.

Se il test delle due votazioni mostrerà con eloquenza lo spostamento dell’asse politico greco, sarà quantomai probabile l’anticipo delle elezioni politiche. E se Syriza conquisterà il governo dovrà tener fede al suo impegno, da mesi dichiarato. Di battersi, e anche duramente, contro le politiche di austerità e sopratutto di chiedere con forza una ristrutturazione del debito pubblico greco. Lo slogan di Tsipras è di ottenere una riduzione del debito greco del 60%.

Avremo quindi verso la fine di quest’anno o nella prossima primavera una riedizione della crisi finanziaria del 2011, innescata da un braccio di ferro greco?

A differenza di allora, oggi però tutti i maggiori player sono informati. La Grecia non potrà reggere all’infinito con il debito al 170% del Pil, nemmeno se tornerà a crescere al 2%. Prima del braccio di ferro va trovato un percorso regionevole.

Ecco quindi che, quando Tsipras lancerà la sua offensiva sul debito greco si troverà di fronte non un parlamento di liberisti o conservatori, ma di socialdemocratici. E come controparte diretta non Barroso (un alias della Merkel) ma Schultz, che a Berlino tratta alla pari con il governo.

Ecco allora che (a meno non sia fuori di senno) anche l’italiano Renzi  il francese Hollande e lo spagnolo Rajoy vorranno partecipare direttamente a questa grande trattativa, su un possibile fondo comune dei debiti pubblici e forse su una modifica dello statuto della Bce.

Tutto sarebbe conseguente. L’abbattimento degli interessi sul debito dei paesi europei in crisi crerebbe appunto il contesto di un “piano Marshall”, con un’ondata di investimenti pubblici e politiche industriali (per esempio sulle rinnovabili) tali da risvegliare il Sud Europa.

Alla fine del suo mandato Martin Schultz (insieme a Tsipras) potrebbero guadagnarsi il Nobel per la Pace. Di sicuro passerebbero alla storia come statisti, e non certo politicanti.

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Nb. L’ipotesi che stava circolando a Bruxells dell’European Redempion Fund è stata di fatto seppellita dallo stesso comitato di esperti che l’ha studiata per un anno. Ma dopo le elezioni si aprirà lo stesso la vera trattativa.

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One Response to Sedici gradi di separazione

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