Stato fallito, stato di necessità, stato di gioia

Da 24 anni lo Stato italiano vive un una situazione prefallimentare. Da 24 anni, grazie al mostruoso debito pubblico accumulato dal 1981 al 1992 l’Italia è sottoposta a continue politiche di austerità, caso unico in Europa, mentre le sue risorse fiscali (ovvero le tasse dei contribuenti onesti) sono andate a finanziare i “creditori” del grande fallimento. Ovvero le famiglie italiane agiate, le banche e vari soggetti finanziari internazionali.

Oggi l’Italia soffre.  Ha gravi difficoltà a sostenere il suo stato sociale (sanità, sussidi e strutture contro la disoccupazioe), la manutenzione delle infrastrutture pubbliche, ha  chiuso o privatizzato (spesso malamente) la massima parte delle sue aziende statali e locali. Lo Stato italiano sta lentamente strangolando le sue università pubblica e di fatto ha chiuso i suoi rubinetti per la ricerca scientifica. Il tutto in una situazione di pressione fiscale massima in Europa che altrimenti avrebbe dovuto dar luogo all’esatto contrario, a uno stato sociale scandinavo.

In Europa è passata la logica (matematica) del pareggio di bilancio e del fiscal compact. Ovvero il “rientro” dal debito pubblico tramite dosi ulteriormente crescenti di austerità. Già i 24 anni passati hanno chiaramente mostrato il circolo vizioso in cui l’Italia si è cacciata, alla ricerca del contenimento matematico del debito.  Le dosi di austerità, il massiccio avanzo primario varato da Ciampi dopo il quasi fallimento dello Stato italiano nel 1992-93 hanno pesantemente depresso l’economia italiana, gettandola in uno stato di stagnazione quale non si era mai visto nella storia recente del paese. Questa “grande stagnazione”, che tuttora perdura, ha avuto effetti perversi e automoltiplicativi.  Nel pessimismo diffuso si è rinviata la nascita di nuovi figli, l’avvio di nuove imprese, l’ingaggio in rischi. Nella scarsità di risorse pubbliche si sono incentivate le scorciatotie, come la corruzione. Nel deserto di opportunità al Sud (ma non solo) hanno avuto buon gioco le organizzazioni criminali. Nella sfiducia si è alimentata l’evasione. E questa sottrazione di risorse ha ulteriormente reso più pesante l’austerità. Accentuando ulteriormente lo stato di stagnazione.

Dai 24 anni di Stato Fallito, in sostanza, l’Italia esce più povera, depressa, egoista, invecchiata. E preda di numerosi circoli viziosi.

Però, c’è una immagine speculare di questo stato di cose che sta nei 4mila miliardi di patrimoni mobiliari detenuti dai cittadini italiani (altri 4mila sono le consistenze immobiliari).  Sono cifre imponenti, superiori a quelle tedesche, ai vertici dell’Europa.

Un gran numero di famiglie italiane (ricche, ma anche di ceto medio e lavoratrici) è più patrimonializzata delle corrispondenti tedesche.

Peccato però che questa massa di risparmi e capitali non generi di fatto sviluppo per l’Italia. Per la massima parte questi 4mila miliardi sono la materia prima dell’industria del risparmio gestito, tra le prime in Europa, che opera sulla spazio finanziario globale. Sui fondi di investimento Usa, tedeschi, inglesi, francesi, asiatici. Su chiunque offra buone performance e buoni rendimenti. Si stima che solo il 10% di questa massa gestita sia denominata in titoli italiani (Bot,Cct e altri bond), in azioni bancarie e di qualche grande impresa nostrana.

Qsti 4mila miliardi sono però il figlio primogenito di quello che un tempo si etichettò come “il popolo dei Bot”, ovvero gli italiani abbienti (o solo risparmiatori) che approfittarino della cresciata abnorme e automoltiplicativa del debito pubblico negli anni Ottanta. Anni in cui le aste dei titoli, guidate da grandi speculatori internazionali (e non dalla Banca d’Italia che in nome della sua indipendenza rinunciò ad autare l’Italia) generavano tassi di interesse reali dell’ordine del 4%. Impossibili da sostenere con il bilancio dello stato, quindi rimessi a debito per l’anno successivo, in un crescendo di anatocismo, di interessi che creano altri interessi (a nostro carico).

Questa “bonanza” durò oltre un decennio. Poi i risparmiatori italiani, sempre nella scia delle grandi banche speculative occindentali, cominciarono a diversificare. E la torta crebbe ancora, con i Berlusconi di turno che si guardavano bene dal tassarla, salvo martoriare, via Tremonti, le risorse pubbliche per la sanità, l’università e ricerca, l’occupazione.

Abbiamo quindi un’Italia polarizzata. Da un lato l’immiserimento dello Stato e dall’altro la ricchezza patrimoniale privata. Potremmo pensare a tassarla, con una patrimoniale “pesante”. Ma la velocità di trasferimento oggi vigente sulle reti dei mercati finanziari lo sconsiglia. Ci troveremmo a tassare solo i pesci piccoli, quelli che non possono scappare.

Meglio, molto meglio un’altra strada. Attrarli su investimenti redditizi in Italia. Su nuovi  beni pubblici redditizi.

L’Italia ha molto da ricostruire, dopo 24 anni di stagnazione. Ha molte opportunità di investimento. Di converso il mercato mondiale presenta un quadro inverso: poche opportunità di investimento, e un forte rischio di “stagnazione secolare”, caratterizzata da bassi rendimenti su qualsiasi attività.

Si va in banca, di questi tempi. spesso a comprare titoli di stato “sicuri” ma a rendimento negativo.

Dopo 24 anni di Stato fallito, in larghe parti d’Italia emerge infatti uno Stato di necessità. Moltissimi beni pubblici sono sull’orlo del degrado, fisico e umano. Università, scuole, asili, ospedali, ambulatori e pronto soccorso, linee ferroviarie, biblioteche, teatri, cinema. Strutture che fanno la qualità della vita di intere zone.

Chiedere allo Stato di provvedere significa esporsi al solito ritornello “non ci sono i soldi”.

Lo Stato (centrale o locale) può nel caso migliore contribuire  a qualcosa che ormai chiama in causa la partecipazione dei cittadini attivi.

Ci mettereste mille euro (a fonte di un patrimonio di un milione) per un’azione su una “public company” per avviare un pronto soccorso nella vostra zona? Oppure un’altra azione per sostenere un’Università e avviare un centro di ricerca in cui domani potrà farsi le ossa vostro figlio studente di liceo scientifico?

E se vi dicessero, documentandolo, che investimenti di questo tipo vi consentono: a) di controllare come azionisti veri la gestione delle iniziative e b) di darvi un rendimento dell’1%, pari o superiore a un titolo di stato?

Impossibile, follie? Impossibile una compagnia ferroviaria indipendente capace di dare ai pendolari alle porte di Milano un servizio decente, e finanziata (anche) dai lavoratori stessi? Un’azienda capace di contribuire a un’aria migliore in quella che, pianura padana, è divenuta una camera a gas? Un fondo partecipato per l’efficienza energetica nei condominii? Un’azienda per la diffusione delle energie rinnovabili?

Alla  partecipazione informata (reti e forum civici), a quella deliberativa (bilanci partecipativi) si affianca così la dimensione, ancora più avanzato, della partecipazione produttiva (crowdfunding civico e public companies). Con un ruolo e bilanciamento tra Stato e cittadini ancora da inventare.

In un paese che non sa più sognare io ci provo lo stesso.

Supponiamo che un altro 10% dei patrimoni mobiliari vadano a essere investiti nei prossimi 5 anni in beni pubblici italiani riattivati. Si tratterebbe, più o meno, di una massa di investimenti di 400 miliardi (600 con un apporto pubblico minoritario) e quindi  di tutto rispetto. E tale da innescare effetti di sviluppo ulteriore, per esempio sull’edilizia o sui servizi.

Potremmo crearci noi l’inversione di ciclo di stagnazione?

Comincerebbe così a configurarsi uno scenario di “crescita italiana endogena”, guidata dai cittadini attivi, e non da caste politiche o peggio.

Primo risultato, l’inversione del ciclo depressivo.  Secondo, l’alleanza tra gli italiani poveri, le classi lavoratrici e il ceto medio patrimonializzato.  Terzo, una concezione completamente diversa dei beni pubblici, dello Stato e del futuro.

Quarto. Una rete di fiducia dei cittadini, connessa ai propri pari nelle public companies, al posto di una rete di dipendenze.

Quinto. Una diversa concezione dei soldi.  Se associato a un pari fenomeno di crowdsourcing (per esempio un paese che chiede ai suoi cittadini di contribuire al restauro di un bene storico emblematico di quel paese) emerge che il rendimento finanziario dell’investimento in quanto tale può rivelarsi secondario rispetto al “rendimento immateriale e sociale” derivante dalla valorizzazione del proprio luogo vitale. E che può essere generato dal gioco “win-win” con gli altri partecipanti attivi.

Dobbiamo uscire dall’euro, come dicono i demagoghi alla Salvini? Come si vede no.

Dobbiamo aspettare Renzi? Nemmeno.

L’Italia si salva solo con un mix tra partecipazione e investimento. I due termini che i personaggi testè citati non usano mai.

Fose perchè non procura voti dire che il culo ce lo dobbiamo fare noi e tra di noi. Ma è così.

Però, passo dopo passo, la probabilità di salire da uno Stato fallito a uno Stato di gioia così è non nullo.

 

 

 

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4 Responses to Stato fallito, stato di necessità, stato di gioia

  1. Giovanni Talpone says:

    La proposta di Beppe mi convince solo parzialmente: lo Stato italiano rimarrebbe indebitato e la casta che lo sta dissanguando rimarrebbe dov’è. Inoltre: chi non ha un euro, come farebbe ad investire? E chi investisse, perché dovrebbe divedere i benefici con chi non può? Ma per tornare al punto: dall’analisi di Beppe sembra che le entrate siano tasse “oggettive” e le uscite vadano o nel servizio del debito o in investimenti e in servizi di pubblica utilità. Entrambe queste premesse sono false. Le tasse sono pagate solo da una parte della popolazione (soprattutto lavoratori dipendenti in regola, che anche per questo diventano “troppo costosi” e quindi “non competitivi”). Già solo una lotta seria all’evasione fiscale (quale quella iniziata da Bersani e Visco, non a caso silurati dagli stessi padrini di Renzi) sposterebbe risorse dall’economia mafiosa e parassitaria all’economia legale. Ma soprattutto sul lato delle spese c’è un enorme sperpero di cui da decenni tutti i migliori mezzi d’informazione danno conto tutti i giorni (e certamente è solo la punta dell’iceberg). E una parte importante di questo spreco è provocato dalle Regioni, che con la “riforma” del Senato avranno ancora maggior potere e impunità. Una delle ragioni del fallimento morale del Pd è aver considerato il lavoro iniziato da Bersani e Visco non una bandiera e una medaglia, ma una vergogna da far dimenticare. Allentare i vincoli di bilancio prima di un risanamento radicale della macchina dello Stato e delle Regioni, significherebbe lasciare la casta in eredità anche ai pronipoti.

  2. beppe says:

    La mia proposta è ovviamente parziale, Giovanni. Ma, mentre i temi che tu elenchi sono ampiamente conosciuti, ed è chiara la volontà politica di mantenerli sotto tono, poco conosciuta è l’inutile ricchezza patrimoniale di un gran numero di italiani. E il paradosso generato da 24 anni di alto debito. Un governo di sinistra, e rivolto alla ripresa del paese, potrebbe introdurre una patrimoniale con incentivi finalizzati (sconti sulla tassa) a chi sposta investimenti sull’Italia. E insieme una rete di agenzie per la partecipazione (per esempio a Milano) indivuduare possibili terreni di creazione di public companies. Un bastone e una carota, in sostanza. Patrimoniale, incentivi fiscali e investimenti partecipati. E non scrivo questo per il governo Renzi. Ricordi quando Romano Prodi parlava di public companies. E che fine fecero?

  3. Enrico Baldi says:

    Qualche decennio fa quando si parlava molto della fame nel mondo mi chiedevo perché i mendicanti si vedessero solo nei film muti. Ora in certe zone di Milano tipo tra Pagano e De Angeli ce n’è uno ogni 10 metri.
    Un’altra cosa che mi chiedo in tempi recenti è perché diavolo il settore pubblico non propone progetti sociali o economici vendendo azioni direttamente ai cittadini.
    Spero che fra non molto i venditori di azioni pubbliche li troveremo ogni 10 metri.
    Inutile dire che non ci mancano certo le persone e le competenze. Ricordo solo Fabiola Gianotti direttrice del Cern di Ginevra; o le aziende gioiello di Stato privatizzate per coprire i buchi lasciati dal malaffare (Luciano Gallino in ‘La scomparsa dell’Italia industriale’).
    Per quanto riguarda l’uscita dall’Euro non è certo solo Salvini a dire che bisogna uscire.
    Lo dicono praticamente tutti gli economisti che l’Euro con questa Europa non può funzionare.
    E visto che nulla cambia discutere di un ‘Piano B’ per mettere in discussione l’Euro per motivazioni diverse da quelle di Salvini è sicuramente opportuno:

    https://www.euro-planb.eu/?page_id=275&lang=it

  4. beppe says:

    Enrico, è molto semplice purtroppo. Uscire dall’euro, tornare alla lira, significa dimezzare la base patrimoniale del paese, con enormi fughe di capitali. Conviene, rispetto alla strada della partecipazione produttiva?