La non politica di un’Italia paralizzata. Alias il partito tecnocratico della nazione di Renzi. Alias la fine della democrazia dialettica in Italia. Alias la fine dell’effimero modello arancione di Milano.
Da oltre 25 anni lo stato italiano versa in condizioni fallimentari. Da altrettanto non vi è politica economica, progetto per il futuro, capacità di riscossa. Il debito pubblico fu creato nei primi anni ottanta come mostruosa misura disciplinare, con l’aiuto della finanza internazionale, per “mettere in riga” un paese ad alto rischio di comunismo, aggressivo sui mercati mondiali con le sue grandi imprese pubbliche – Eni di Mattei in primis, che non stava alle regole dominanti.
Quella escalation del debito pubblico, interessi da pagare che creavano nuovi interessi, raggiunse nel 1992 il punto critico. Vicino al fallimento dello Stato. Da allora l’Italia ha vissuto un’altrettanto abnorme stagione di austerità. Di qui la lunga, lunghissima stagnazione che stiamo vivendo, sotto il peso di qualcosa che gli italiani ormai ritengono come una maledizione biblica. La fuga dei giovani cervelli italiani all’estero, persino l’accelerato invecchiamento demografico di questo paese fanno parte di questa “crisi pulridecennale da debito”, che ci erode anno dopo anno.
Però. Se andiamo a vedere con attenzione i dati economici possiamo notare che gli italiani sono patrimonialmente ricchi. Le banche nostrane lo sanno bene. Abbiamo più patrimonio dei tedeschi. Un gran numero di famiglie di ceto medio-alto hanno goduto dei titoli di stato ad elevatissimo tasso di interesse degli anni ottanta e novanta (bot people). E oggi possono esibire 4mila miliardi di euro di patrimoni mobiliari complessivi, quasi due volte l’attuale debito pubblico.
Questa enorme massa di valore viene investita nell’Italia? No. Se va bene il 15-20%. Crea imprese, posti di lavoro, progetti moltiplicativi? No. Si rifugia nelle gestioni globalizzate bancarie e non, dove con un click passi da un fondo cinese a uno di Wall Street.
E’ un paradosso che nessuno ci dice. L’Italia, grazie alla folle politica di debito pubblico degli anni ottanta, ha creato una classe di rentiers che ne gode i frutti ma, come gli avvoltoi, osserva da lontano e al sicuro il paese che muore. E molti di questi “avvoltoi” sono persone del tutto perbene, ignare di quello che stanno facendo – o non facendo .
Certo, li aiuta la politica. Subito dopo il primo quasi fallimento, nel 1994, assurse agli onori di governo tal Silvio Berlusconi che a loro diede un messaggio molto, molto rassicurante. Non dovete far nulla perchè io farò il miracolo. Non pagate le tasse – e diede l’esempio – perchè sono ingiuste. E così via.
Prese tanti voti ma…l’Italia entrò in quella parabola depressiva che dura ancora. Prodi, il suo avversario democristiano, non ebbe il coraggio di dire le cose come stavano. Silenziosamente Tommaso Padoa Schioppa, il suo ministro del Tesoro, riuscì a limare il debito pubblico al 100% del Pil. Ma per poco. Con lo scoppio della grande crisi del 2007 l’Italia fu di nuovo nella trappola, nonostante 15 anni di tempo per tirarla fuori.
Veniamo alla seconda metà del 201o, quando si cominciò a ragionare per la campagna elettorale delle amministrative di Milano. Boeri contro Pisapia. Due anime belle. Il primo architetto prestatosi al Pd. Il secondo avvocato e giurista di rango nazionale.
Tutti e due privi di conoscenze economiche. Della crisi economica mondiale in corso, della debolezza strutturale dello stato italiano, delle conseguenze prevedibili di questo sul loro stesso mandato.
Vinse Pisapia, come sappiamo. Appena a palazzo Marino scoprì il buco di bilancio lasciato dalla Moratti nei conti del Comune. E l’ampiezza del suo debito, 4 miliardi, il secondo in Italia – dopo quello abnorme di Torino per i suoi infausti giochi olimpici.
Pisapia credeva in una situazione normale o idilliaca. No. Il suo programma, sviluppato da centinaia di cittadini – la fabbrichetta – richiedeva centinaia di interventi nella città, piccoli e grandi. Ne dovette accantonare o cancellare ben oltre la metà.
Puntava tutto, classicamente, sui margini di spesa pubblica corrente. E si schiantò all’urto della crisi del 2011. Non pensò mai, nè lui nei suoi, a una politica innovativa su altri fronti.
Un’altra vittima del debito.
Poi venne Monti. Di fronte al quasi crack dell’Italia a fine 2011, insieme alla legge Fornero, lanciò un taglio drastico sui trasferimenti agli enti locali. Il ricevente Bruno Tabacci, il primo assessore al bilancio di Pisapia, si dileguò. Al suo posto fu la Francesca Balzani, una specialista in materia mandata dal Pd nazionale, che fece le sforbiciature, di grosso e di fine. In modo anche impeccabile.
Da allora la giunta Pisapia è stata paralizzata. In pratica il modello Milano è morto con Monti, alias con il debito pubblico mai capito e affrontato.
E, dopo questo lungo e noioso preambolo, arriviamo ad oggi. Perchè Milano vedrà una campagna elettorale tra tre noiosi manager? Semplice, perchè i manager amministrano – chi meglio e chi peggio – l’esistente. Un triste esistente che si prolunga da 25 anni.
Potrete scegliere se sarà più bravo Passera, Sala o Parisi. Ma non potrete scegliere se le enormi risorse nascoste di questa città – circa 1000 miliardi di patrimoni – potranno, quantomeno in parte, venir messe al servizio dei cittadini stessi,inducendo circoli virtuosi di sviluppo per tutti, ricchi e poveri.
Questo è un tabù, quantomeno da Berlusconi in poi.
No. Qui ci vorrebbe un leader con una visione, con una determinazione, una tenacia e soprattutto con un’organzzazione al seguito che ne condivida le idee e la strategia.
Non c’è. La politica in Italia è ormai fatta di tanti frammenti, spesso conflittuali tra di loro. E di dilettanti.
Facciamo alcuni esempi. Si deve passare a una città metropolitana, che comprende un centinaio di comuni attorno a Milano. Nel centro di un pianura padana divenuta da anni una camera a gas. Bene, pensiamo a un’Atm “estesa”, metropolitana e capace di gestire un servizio ferroviario decente per i pendolari. In competizione con Trenord-Ferrovie dello Stato. Da tutta la cerchia delle direzioni in ingresso.
In che forma? La sua trasformazione in public company, ad azionariato diffuso, controllo partecipato, e possibilmente anche rendimento al di sopra di quel misero 1% che oggi offrono, nella crisi, i titoli di stato.
Questa public company dei trasporti metropolitani lombardi potrà o non potrà essere la protagonista di un bel pezzo di decarbonizzazione della regione? Una volta sul campo le linee, i servizi, (moderni e puntuali) e le strutture (stazioni), Milano non potrà avviare una politica incisiva di incentivo di chi abbandona l’auto per l’ingresso pendolare e di pari restrizione? Quanti morti di cancro e infarti in meno?
E poi. Una utility metropolitana per l’acqua? Per la fibra ottica? La Sea come public company? A2A? Una public company per Città Studi? Una Public company per l’Università Statale? Per il Politecnico? Per l’Istituto Tumori?
Il concetto è: una rivoluzione copernicana in Italia. Estendere la partecipazione all’investimento diffuso, alla partecipazione produttiva. Usare il crowdsourcing – come si è fatto a Bologna – non solo per i restauri ma anche come leva di rilancio. Di Milano, poi, sull’esempio, della pianura padana e infine del paese.
Per fare questo non bastano i manager. Ci vogliono i leader, veri.