E’ eloquente la scheda che oggi presenta la Repubblica sui programmi comparati dei vari partiti. Basta darle una scorsa per osservare gli enormi spazi vuoti del programma Pd (e Sel) , ovvero della carta di intenti di ambedue.
A confronto il programma del Pdl sembra la stele di Hammurabi. E soprattutto, spicca la meticolosità dell’agenda Monti. Piaccia o no un progetto riformista-liberista.
Anche il 5 stelle è dettagliato, ma a volta su proposte un po’ fantasiose.
Il non programma del Pd-Sel ha un significato abbastanza chiaro. E’ una carta di intenti che sembra fatta apposta per tenersi le mani libere un po’ su tutto (salvo la patrimoniale, l’incentivo all’industria verde e alcune misure sui diritti individuali).
E queste mani libere significano una cosa. Raggiungere in parlamento una quasi maggioranza (sempre più risicata, con l’effetto Monte Paschi) per poi trattare l’effettiva agenda di governo con….Monti.
Per questo Bersani, all’avvio della campagna elettorale, disse che il Pd “non avrebbe fatto promesse”. E infatti non ce ne sono di rilevanti nella carta di intenti. C’è solo la patrimoniale (tutta da modulare, considerando l’Imu) , c’è un generico intento, con i suoi proventi, di ridurre le tasse sul lavoro e l’impresa. Ma niente altro. Certo non ci sono i fuochi d’artificio fiscali (ben conosciuti) di Silvio Berlusconi.
Il messaggio, per chi sa capire, è che nulla può essere promesso perchè c’è una gigantesca ristrutturazione da fare. Ridisegnare il patrimonio statale e il settore pubblico, le regole del lavoro, rivedere la spesa. Possibilmente dare sostegno a chi oggi è in grave affanno.
Carta di intenti e Agenda Monti, si badi, sono state ambedue scritte prima della campagna elettorale. Segno che il cammino era stato già delineato. Anche in caso di grande affermazione, al 38-40% della coalizione Pd-Sel. Ma oggi siamo al 32%.
Il motivo è semplice. Anche in caso di vittoria su tutta la linea la coalizione non avrebbe mai avuto la forza politica interna per affrontare la grande ristrutturazione italiana. Questo significa scontenare poteri grossi, come per esempio il pubblico impiego. Questo almeno si desume dai due documenti chiave.
In ogni caso la vittora di Pd-Sel avrebbe dovuto comunque appoggiarsi sull’area di Monti, dei grandi tecnocrati e imprenditori. Per gestire una ristrutturazione di sistema fortemente critica anche per aree tradizionalmente orientate a sinistra.
Oggi però si è aggiunto un elemento nuovo, che rafforza questa prospettiva (obbligata, ormai) e crea (o meglio fa emergere) un grande, strategico, problema al Pd.
Si tratta del crollo del Monte Dei Paschi, una brutta e lunga storia, una storia tutta Pd. Un quasi crack bancario tamponato con un prestito statale.
Qualcuno, in qualche trasmisssione televisiva, ha osservato che i 4 miliardi di Monti-Bond dati a Mps equivalgono a tutto il gettito dell’Imu sulla prima casa. E’ stato un autentico pugno nello stomaco per i cittadini elettori. I nostri sacrifici destinati a una banca di affaristi, capeggiati da un dalemiano di ferro, un certo Mussari. A pensarci viene voglia di votare Grillo.
Tanto è bastato perchè i peggiori ricordi della sinistra al potere negli scorsi anni tornassero a galla. Le epiche gesta dalemiane dello spolpamento di Telecom, di “abbiamo una banca” di Gianni Consorte, di Penati e del Sistema Sesto. Ma anche di De Bustis, il sodale pugliese di D’Alema, che rifilò la sua banca fallita proprio al Monte dei Paschi. Un lungo filo non rosso ma sporco, per chi ricorda.
In dieci giorni il Pd ha perso l’1,6%, il centrodestra ha guadagnato l’1,3% e il M5s ha guadagnato l’1%, fino al 18% (ora si posiziona come il terzo partito italiano). Quando Grillo ha chiesto a gran voce le dimissioni di Bersani (ex compagno di affari di Penati, ricordiamolo) ha fatto centro nell’immaginario di migliaia di italiani.
Se lo smottamento continuerà (magari con altre notizie clamorose da Siena) e il margine residuo di cinque punti tra centrosinistra e centrodestra si assottiglierà ancora la situazione di governabilità potrebbe risultare realmente compromessa. E Berlusconi tornare al comando.
Ma non è realistico, per fortuna. Quello che invece è ormai realistico è la necessità di un profondo cambiamento nel gruppo dirigente “reale” del Pd. Bersani arriverà a fine elezioni, con un esito delle urne che sostanzialmente dice: per quanti sforzi tu abbia fatto (e con te centinaia di migliaia di militanti e attivisti, molti dei quali giovani) con le primarie per cambiare l’immagine del Pd, questo patrimonio di nuovi consensi si è in gran parte squagliato con la riapparizione sulla scena del “convitato di pietra”, ovvero il vecchio e inamovibile “sistema di potere” diessino, dalemiano, portatore dei suoi immancabili fallimenti riversati sul partito e sulla sinistra italiana. Di cui tu facevi purtroppo parte.
La lezione del Monte dei Paschi, di questo gennaio 2013, spero sia quella definitiva per il Pd. Spero che quei militanti che si sono fatti i gazebo e le notti per le primarie esigano la rottura con gli affaristi, e in generale l’indipendenza da ogni entità parallela, del passato Pci.
Domani un nuovo Montepaschi potrebbe erompere tra le Coop, o su altri satelliti. Chi lo sa?
Bersani non potrà atteggiarsi quindi a grande vincitore, dopo gli scorsi dieci giorni. E il Pd dovrà programmare un grande cambio al vertice (e nel suo corpo di aziende, cooperative…). Molti avranno l’amaro in bocca il 25 febbraio, di questo passo.
Bersani ne uscirà ridimensionato, e con minore potere contrattuale verso Monti.
Due grandi ristrutturazioni in parallelo si annunciano, quindi. Quella dell’Italia, che verrà guidata da Monti (e solo “temperata” dalla coalizione di centro-sinistra, e da suoi leader, sperabilmente credibili…). E quella dentro il Pd, per trasformarlo in un partito libero da appartenenze economiche o di influenti lobbies (Cgil compresa).
La persona oggi (sulla scena) più indicata a guidare questa doppia ristrutturazione è chiaramente, a mio avviso, Matteo Renzi.