Forse mi sbaglierò (ma non credo). Ora, con la firma a 25 del fiscal compact di venerdì scorso, per Mario Monti si apre ora una fase più interessante, e forse meno difficile di quella apertasi a dicembre 2011.
Venerdì si è parlato di “Europa 2020″, di project bonds entro giugno, di passi per rendere questi documenti appena abbozzati piani tangibili, in tempi certi.
A che servono i projetc bonds? Semplice: a costruire infrastrutture nuove, come la rete ferroviaria europea ad alta velocità, finora a corto di fondi.
Ecco che arriviamo rapidamente al nodo della Val di Susa. Un’opera pubblica che dovrebbe far uso di questi bond, previsti peraltro nel decreto “Salva Italia”.
Ovvio, Monti vuole varare il progetto Torino-Lione come suo banco di prova di una politica di realizzazione di infrastrutture capace di coinvolgere i capitali privati, quantomeno su scala europea. Un segnale di politica attiva per la ripresa. Un altro fiore all’occhiello da esibire alla Merkel per arrivare ai più generali eurobond, ovvero (dopo l’unione fiscale e l’unione delle politiche economiche attive) al debito pubblico europeo.
Questi passaggi hanno senso, ma, quantomeno nel caso piemontese, con un grosso punto interrogativo. Supponiamo che alcuni miliardi di euro vengano raccolti tramite un Project Bond (garantito dall’Unione europea o persino dalla Bce) sulla Torino-Lione. Un ammontare di circa 3 miliardi comunque necessario anche nella versione low cost dell’opera.
Supponiamo però che i dieci anni necessari alla costruzione della grande galleria si allunghino e si dipanino in uno stillicidio di conflitti continui. Fino all’allungamento dei tempi del progetto. E la permanente militarizzazione della valle. Come potrebbe essere ripagato un Project Bond decennale (o più), di mercato, senza generare un disastro?
Non sarebbe meglio che Monti avviasse project bond in Italia su terreni infrastrutturali meno rischiosi?