Tutti lo sanno, ma nessuno nelle alte sfere vuole ammetterlo pubblicamente. Il capitalismo, e in particolare il capitalismo libero globale nato negli anni 90, è in crisi, Nessuno sa e riesce a prevedere quanto profonda sarà questa crisi, e se reversibile o meno.
Di fatto, con lo scoppio della prima bolla (internet e tlc) del 2000 il sistema è divenuto instabile. Gli Usa si sono deindustrializzati (a favore della meno cara Asia) e l’Europa ha cominciato a ridurre e perdere il suo famoso sistema di protezione sociale e di welfare. Il ceto medio deindustrializzato Usa si è buttato sulla speculazione immobiliare di massa, Bush ha tentato di accaparrarsi il petrolio irakeno, e nel 2008 è esplosa la seconda bolla immobiliare-finanziaria, che ha coinvolto anche molte banche europee.
La crescita industriale asiatica ha cominciato a mordere anche l’Europa, amplificando la crisi nei singoli paesi (Italia in primis). Ma poi anche con un feedback globale, e sugli stessi produttori asiatici che oggi vedono uno dei principali mercati mondiali rarefarsi.
Nel frattempo la stabilità finanziaria Usa, grazie allo storico ruolo “imperiale” del dollaro, è stata mantenuta tramite una terza bolla. Quella degli enormi finanziamenti che la Fed ha nei fatti canalizzato su Wall Street. Ufficialmente per indurre e sostenere la ripresa Usa, nei fatti per mantenere in piedi lo strategico complesso bancario-finanziario statunitense.
Oggi tutti scrutano, settimana dopo settimana i dati macro americani. Forse la ripresa finalmente c’è. Forse no.
In realtà un’era d’oro si sta chiudendo. La Cina, sempre più autocentrata, non è più un affare per i capitali occidentali, e soffre di una crescente crisi bancaria interna (banche di partito, decotte). L’India è in frenata rapida, come se avesse toccato il tetto saturando la sua esportazione di ingegneria software senza riuscire a inserirsi nell’industria hard globale.
Da soli questi due giganti danno il tono, nel bene o nel male, della globalizzazione.
Se quindi guardiamo con attenzione a questa catena di eventi possiamo capire che questi sono i grandi, enormi sbandamenti a cui è stato sottoposto (e viene sottoposto) il sistema dei popoli in nome della globalizzazione, ovvero dell’allargamento rapido del capitalismo oltre ogni limite e confine.
Finanza senza briglie, industria in migrazione. Stati in fase di taglio e di ritirata. Tutto in presenza di reti elettroniche globali. E quindi succede che, e da vari anni ormai, anche le rivolte alla crisi presentano le stesse caratteristiche.
Contemporaneamente oggi, sono giovani egiziani, brasiliani, turchi a “imbracciare” lo smartphone. Organizzandosi su Facebook e postando foto delle brutalità subite.Ieri fu la primavera araba, poi Occupy Wall Street, gli emarginati in Svezia, i giovani iraniani….
La globalizzazione, nella sua forma tecnologica, rende di un ordine di grandezza più facile insorgere e propagare l’insorgenza. Soprattutto se, sotto, vi sono generazioni di giovani senza futuro, pronti a scattare anche per un parco cittadino violentato.
Questi sono i risultati di una globalizzazione economica velocissima (in meno di dieci anni ha cambiato la faccia del pianeta) totalmente asimmetrica rispetto a una pari globalizzazione politica. Di fatto immobile.
Per esempio. Alla fine della seconda guerra mondiale Keynes propose un banca mondiale capace di emettere moneta di riserva globale (il Bancor). E quindi di coordinare tutte le banche centrali del pianeta. Gli americani risposero ovviamente di no, a favore del loro dollaro imperiale.
Keynes sognava il governo mondiale dell’economia e della ricostruzione del mondo. Ebbe in cambio l’Fmi, un ibrido controllato dai grandi stati (Usa in testa).
Oggi una banca centrale mondiale è con assoluta evidenza necessaria (di fatto le grandi banche centrali mondiali cercano di coordinarsi in un network che in qualche modo l’approssima, quando arrivano le tempeste). E così un sistema per controllare e limitare alcuni movimenti di capitale (in particolare l’abnorme massa di derivati, ma anche i paradisi fiscali, ancora a piede libero).
Manca però il Bancor. Ovvero la moneta di riserva e la politica monetaria coordinata su tutto lo spazio globale.
E così un centro di guida delle politiche economiche che sia in grado di usare questa moneta dell’umanità. In grado di indurre investimenti di riequilibrio nei paesi “deboli” , dall’Egitto all’Italia, alla Nigeria al Brasile.
Il tutto può forse avvenire anche per coordinamento degli stati esistenti? Questo processo si sta rivelando inaccettabilmente lento. l’Fmi, per esempio, è solo un’ambulanza (costosa) per malati quasi terminali.
Se chiediamo a un giovane egiziano, italiano, spagnolo che vive sui social network che ne pensa di un governo globale, per lui questo linguaggio è immediatamente comprensibile, persino scontato. Un governo democratico globale, in un’era in cui si lavora e si vive in un ambiente multirazziale, è il riequilibratore simmetrico all’instabilità del sistema.
Se poi questo si combina a una forma di democrazia più avanzata dal basso ecco che comincia a profilarsi un futuro. Per democrazia più avanzata intendo dire: intelligenza collettiva di seconda generazione.
Mi spiego. Per anni su internet (dai primi anni 90) abbiamo avuto (e vissuto) forme di communità di discussione, di scambio reciproco, di informazione. Queste communities hanno però sempre avuto una limitazione di fondo. Chiunque poteva parlare, parlare, parlare. Ma era difficilissismo trovare una sintesi. E una deliberazione operativa.
A meno di non affidarsi a leader mediatici (competenti e ben costruiti, certo) come Beppe Grillo. Al massimo lo si poteva e si può solo commentare sul suo blog.
Oggi però sono disponibili (e già in uso in Italia) delle piattaforme deliberative evolute. In cui l’intelligenza collettiva “grezza” viene auto-filtrata e raffinata, da un processo di emendamenti, discussioni, adesioni e infine votazioni tra i partecipanti alla comunità stessa.
L’intelligenza collettiva di seconda generazione che ne scaturisce è di un ordine di grandezza superiore per qualità alla prima. Focalizzata, precisa, concreta e comunicabile. Non a caso il partito pirata tedesco ha stupito, con il suo uso massiccio di Liquid Feedback per la qualità dei suoi programmi politici.
Liquid Feedback è, nè più ne meno, un “Parlamento” in software e in rete. Con le sue regole rigorose ma anche con la sua accessibilità aperta. E con le sue deliberazioni finali ponderate.
Credo quindi che una democrazia partecipata efficace, capace di usare appieno di questo potente strumento, associata a una banca centrale mondiale e da un ministero dell’economia possano formare il tris d’assi necessario per superare questa fase caotica e instabile. E di dare una prospettiva a una generazione.
Un partito separato dalle carriere statali e dai giochi di potere dei singoli e delle lobbies. Capace di incalzare e rinnovare lo Stato usando proprio “l’intelligenza collettiva” che nasce dalla partecipazione strutturata. Un sogno che oggi affascina molti.
Pingback: L’angolo di Berlusconi | Network Games